Oggi pomeriggio. Sto fumando beato alla fermata dell'autobus quando irrompe nel mio campo visivo un cono gelato, lo vedo volare e poi atterrare composto sull'asfalto del marciapiede.
Non ho visto chi l'ha lanciato, non importa. Sei simil-quindicenni, maschi e femmine, sghignazzano fuori dal bar. Quando mi passano di fianco dedico loro un'occhiata da signora anziana, mi meraviglio delle femmine che, come si dice, dovrebbero essere più mature. Ma presto torno a concentrarmi sul centro d'attrazione della giornata, quel cono piazzato in mezzo al marciapiede, evitato dai passanti oppure sbirciato e comunque mai raccolto.
Anch'io me ne sto fermo. Non soltanto per godermi l'inizio soleggiato della primavera, questo tempo mi serve per riorganizzare i pensieri. C'è l'immagine forte, quella del cono gettato, che mi riporta indietro a mia nonna quando mi diceva di mangiare perché c'erano tanti bambini affamati nel mondo, argomentazione che ho sempre trovato inconsistente da un punto di vista logico. No, non ho cambiato idea. Era una donna molto terrena, pace all'anima sua. Mi voleva bene. Mi è sempre stato difficile intendermi con lei, però mi è rimasto dentro un dolore ogni volta che viene buttato del cibo.
Seconda interferenza: il pensiero che in fondo sono giovani, tu hai fatto di molto peggio quando avevi la loro età. Bingo. Cristiana assoluzione per il mio passato di scapestrato, e assoluzione per i giovinastri del gelato. Quasi quasi li invidio. Emerge adesso la bellezza gratuita del gesto, e mi rammarico di non aver potuto vedere la partenza del lancio. Senza contare l'ennesima riprova della legge di caduta dei gatti: è ovvio e meraviglioso che il cono sia atterrato sulla parte dolce. Le palline di gelato hanno agito come un cuscinetto, ma ancora meglio perché il gelato aderisce all'asfalto. Ritto come un pinnacolo o uno spartitraffico in cialda.
Mi sfiora l'idea che abbiano voluto attirare la mia attenzione. La mia non perché fossero interessati a me, ma perché lì c'ero io. Una vocina mi dice: raccoglilo tu, buttalo nel secchio. E' pure vicino (il secchio). Niente, non mi muovo. Non voglio rischiare di sporcarmi le dita. Tutt'al più, e qui entra in gioco la parte più ributtante di me, potrei raccoglierlo per mangiarlo. Mi fermano, nell'ordine, il pensiero di togliere la parte di gelato che è entrata in contatto con l'asfalto, quindi pigrizia essenzialmente, e l'idea di doverlo fare davanti ad altre persone, la vergogna.
Immobile, morto, col cervello che s'attorciglia su se stesso. Inutile e convinto di esserlo. Mi sento come se avessi settant'anni. La sigaretta è finita.