Premesso che il tema richiede contegno e lo richiedono ancora di più i tempi, funestati da valanghe incontrollate di opinioni su tutto (finanche sull'indicibile), di seguito le mie contestabilissime considerazioni, se non altro perché sono sempre stato abbastanza sensibile al tema della depressione e delle sue potenziali conseguenze.
La prima, e mi tocca quotare FD (ma anche lo sventurato autore della lettera), è che le condizioni emotive e psicologiche da cui scaturisce uno stato di profonda prostrazione sono del tutto soggettive e fungono, in qualche modo, da specchio magico attraverso cui la realtà viene osservata dal soggetto, per così dire, "affetto". Non a caso si parla di "realismo depressivo" per definire il particolare punto di vista di chi vede la vita e il mondo per ciò che sono, vale a dire un buco nero senza scopo né speranza, una condanna imperitura all'ingiustizia e al sopruso (cfr. "legge naturale").
Quanto appena detto dovrebbe spiegare anche perché, nonostante le parole di questo ragazzo abbiano trovato ampio riscontro e condivisione (a volte prestandosi anche a un riutilizzo poco rispettoso), non ci appendiamo tutti al soffitto con una corda ma preferiamo nel migliore dei casi adoperarci per (soprav)vivere e, nel peggiore, lamentarci sui social. Senza bisogno di prendere in mano la cartina geografica e le statistiche come fa Pentiux, faccio notare la profonda tristezza che emerge dalla lettera di Michele è la stessa che ha ispirato, per dirne una, un secolo di musica folk e rock, tra i protagonisti della quale si contano sì tanti suicidi, ma pure tante serenissime assimilazioni al sistema.
C'è però un altro aspetto, ancora più cogente dal punto di vista clinico, che non va taciuto sebbene richieda estrema delicatezza nell'essere trattato. Ad un occhio avvezzo non possono sfuggire alcuni tratti della personalità del ragazzo: il disturbo narcisistico è uno di questi. Ora, fermo restando che alle mie orecchie chi parla dall'alto (o dal basso) di una condizione di realismo depressivo merita sempre ascolto, alcuni passaggi dello scritto denunciano una condizione di "superomismo frustrato" piuttosto eclatante. Intendiamoci: di Jacopo Ortis, nella storia, ce ne sono stati milioni, la storia di ognuno di essi degnissima di un rispetto profondo e muto. Il punto è che ogni Jacopo Ortis si uccide in quanto Jacopo Ortis e non in quanto membro di una società inaccettabile e alienante, perché il suo suicidio è gesto di protesta romantico e individualista, solo parzialmente legato alla realtà che lo circonda, per quanto possa sembrare ne scaturisca direttamente. Brutalmente: l'infelicità di Michele trova oggi una motivazione del tutto incidentale nel precariato e nelle facili previsioni di una distopia prossima ventura.
Per questo, con la delicatezza dovuta a chi si sente toccato in prima persona da quanto denunciato nelle righe disperate di un ragazzo che ha scelto liberamente (e rispettabilmente) di morire, il riuso in chiave politica e sociologica di una storia del genere rischia di essere un autogol o, peggio, un atto di profonda disonestà intellettuale.