La crisi politica
C’è stato un momento in cui il calcio italiano ha pensato seriamente a come salvarsi. Immaginate un pranzo a Torino, alla fine dello scorso settembre: un gruppo di dirigenti delle migliori squadre italiane a darsi appuntamento a casa del più influente tra loro, Andrea Agnelli, per trovare risorse e pianificare strategie che fossero funzionali all’uscita dalla crisi pandemica: chi era arrivato da Milano, chi da Bergamo, chi da Roma, chi frettolosamente rientrato dalla Svizzera. Tutti intorno a un tavolo, a parte un paio di assenti illustri, per pianificare le mosse successive. Cinque mesi più tardi, di quel pranzo “altamente riservato” non sono rimaste neanche le briciole. E i dirigenti che in quell’occasione si erano stretti al presidente della Lega Serie A Paolo Dal Pino nel nome del rinnovamento, sono gli stessi che, cinque mesi più tardi, lo hanno costretto a dimettersi.
Eppure nel pieno della pandemia la Lega di Serie A sembrava aver ritrovato l'armonia perduta. Certo, si era divisa ancora sull'opportunità e le modalità di riprendere il campionato sospeso a marzo 2020 per il virus. Ma da lì il movimento, una volta ripartito, si era compattato intorno a Dal Pino, che col presidente federale Gabriele Gravina aveva aperto la trattativa col governo – in qualche caso sfociata in aperte tensioni – per ottenere ristori, rinviare i termini dei versamenti fiscali, riaprire gli stadi e ricevere un rimborso del costo dei tamponi, obbligatori per mandare in campo i giocatori. Il 19 novembre 2020 le società votano all’unanimità la creazione di una Media Company per gestire la torta dei diritti televisivi, il principale sostentamento del calcio, e per aprire all'ingresso dei fondi di investimento nel sistema: il consorzio Cvc-Advent-Fsi. Ai fondi, la NewCo avrebbe ceduto per dieci anni il 10% dei propri ricavi in cambio di 1,7 miliardi e consegnato anche il potere decisionale sulle strategie commerciali.
Una scelta dolorosa: il consorzio pretendeva di fatto di nominare i vertici della nuova società. "Auspico che a conclusione di questo percorso ci sia l’ingresso della cordata - commentò Agnelli -. Ma se noi in Lega fossimo normodotati non avremmo bisogno di terzi per sviluppare il nostro business". L’ingresso dei fondi avrebbe potuto risolvere i conflitti interni affidando a manager esterni il controllo e “cancellando”, dopo anni di guerre intestine, il vero peccato originale della Lega Serie A: il ruolo, i poteri e la responsabilità del presidente e dell'amministratore delegato, che non hanno autonomia patrimoniale ma rispondono con i propri beni. Un cappio che paralizza il meccanismo decisionale. La Lega ha infatti la forma giuridica di associazione non riconosciuta. Ogni tentativo fatto negli anni di trasformarla in Srl, con conseguente protezione giuridica per i vertici, è stato regolarmente stato sabotato dai club, timorosi di perdere parte del proprio potere. Le decisioni, dunque, devono passare sempre da una difficile concordia fra i presidenti, smaniosi di apparire e comandare. E se il presidente di Lega non si adegua, facile: viene sostituito. Negli ultimi dieci anni la Lega ha avuto quattro commissari e tre presidenti diversi. E ne sta cercando un altro.
Scacco al re
Dopo l'accordo sulla Media Company è accaduto qualcosa: a gennaio 2021 Florentino Perez, lider maximo del Real Madrid, ha fatto visita ad Andrea Agnelli. La parola “Superlega” ha aperto nuove prospettive. L’accordo coi fondi avrebbe vincolato ogni club di Serie A a non lasciare il campionato nei prossimi dieci anni: nessuno voleva ritrovarsi a vendere i diritti di un campionato dimezzato, senza le big. Questo mentre Jp Morgan, partner finanziario del progetto Superlega, prometteva ai dodici club fondatori denaro a condizioni molto favorevoli. Entrare fra i dodici eletti della lega chiusa significava anche potere contare su ricavi certi e prevedibili, programmare strategie di sviluppo e ragionare in una dimensione nuova, anziché dovere ogni anno centrare la partecipazione alla Champions per sperare di far quadrare i conti. Juventus, Inter e Milano hanno abbandonato l’idea della nuova media company della Serie A e aderito al fronte dei resistenti, quelli – guidati da Lotito – che a perdere il potere decisionale in Lega non ci stavano. Quel giorno è franato il progetto Media Company. Ma serviva qualcuno che coprisse gli introiti promessi, 1,7 miliardi garantiti dai fondi. Così è comparsa sulla scena Tim: quando il colosso delle telecomunicazioni ha deciso di sostenere Dazn nell’asta dei diritti tv, sfilandoli dopo anni di monopolio o quasi di Sky, si sono create le condizioni per lo strappo. I 340 milioni con cui Tim ha supportato la tv in streaming hanno fatto impennare la valutazione dei diritti della Serie A a livelli vicini a quelli pre-pandemia. Il partito di chi vuole tornare indietro cresce:
"Quando abbiamo votato l’ingresso dei fondi non pensavamo di vendere così bene i diritti tv"
è il ragionamento col senno di poi. In realtà, però, per Tim l’operazione si è rivelata tutto fuorché un affare. Otto mesi più tardi l’ingresso nel calcio è costato la poltrona all’ad Luigi Gubitosi. Subito dopo, il colosso delle telecomunicazioni ha chiesto uno sconto di 140 milioni a Dazn. Il segno che i vertici aziendali non hanno benedetto quell’accordo. Che è stato utile ai club per mantenere lo status quo, non mettere in discussione il sistema di governance della Lega ed evitare il salto in avanti di un sistema che ha poi visto gli stessi fondi virare sulla Liga spagnola. Insomma, comandano ancora i presidenti di Serie A, eternamente divisi. Pochi giorni fa, il 1° febbraio, Paolo Dal Pino è stato costretto a dimettersi da un sistema che ne ha rigettato l'autorità di presidente, bloccandone ogni mossa. Ma è solo l'antipasto di una guerra più ampia. Per una parte della Lega, il prossimo obiettivo è il presidente della Federcalcio Gabriele Gravina: dalla pandemia in poi, è stato lui nei fatti l'unico a trattare per contro del calcio con il governo. Ora la Serie A ha deciso di doversi rappresentare da sola, nei palazzi della politica. E alcuni club sono già pronti a muovere lo scacco al re. Che ha un'altra grande "colpa": l'alleanza con Aleksander Ceferin, il numero uno della Uefa, nemico giurato di Andrea Agnelli e della Superlega. Gravina addirittura avrebbe ricevuto da Ceferin la promessa di assegnare già a settembre l'Europeo 2032 per cui l'Italia è la candidata favorita: l'organizzazione del torneo garantirebbe al calcio dieci anni per programmare un piano per i nuovi stadi, fondamentale per la salute del sistema. Ma rafforzerebbe oltre misura il peso del presidente Gravina anche nel ruolo di interlocutore con la politica. Per questo la fronda dei nemici accelera: spogliarlo dell'alleato Dal Pino lo ha già indebolito. Se l'Italia dovesse mancare l'accesso ai Mondiali, negli spareggi di fine marzo, potrebbe partire l'assalto finale.
La riforma del Financial fair play
I problemi delle società di Serie A, in forma e in misura diversa, li hanno anche i club della Ligue 1 francese, in cui il solo Psg intercetta un terzo dei ricavi totali, e la Liga Spagnola, che a un’esposizione già miliardaria ha aggiunto altri 347 di nuovo debito autorizzati dal governo di Madrid nel periodo compreso fra il 13 aprile 2020 e il 30 marzo 2021. Va meglio in Bundesliga, dove l’indebitamento netto complessivo dei club ammonta a poco più di 700 milioni, una soglia compatibile con i ricavi. E un discorso a parte vale per la Premier League, capace di generare utili sufficienti per sostenere l’elevatissima spesa. Quando i club inglesi si indebitano fortemente di regola non lo fanno per pagare stipendi e tasse, come succede in Italia, ma per costruire nuovi stadi, come nel caso del Tottenham, o per operazioni di leverage buy out necessarie alle proprietà ad acquistare i club stessi. Investimenti, insomma, che non rientrano nel conto del fair play finanziario, quel sistema di controllo dei conti che la Uefa ha finalmente deciso di rivedere profondamente dopo un decennio abbondante di rodaggio.
Il regolamento del Financial Fair Play, introdotto nel 2009, si poneva due obiettivi. Il primo era evitare che i club si indebitassero eccessivamente con altre società di calcio, pena l’esclusione dalle coppe europee. Il secondo era spingerli verso il pareggio fra ricavi e spesa. “Sul fronte dell’indebitamento fra club, i risultati sono visibili. Impedendo l’iscrizione ai tornei a chi non aveva saldato i debiti per l’acquisto di giocatori, abbiamo evitato fallimenti a catena delle società. Ma se guardiamo all’obiettivo del pareggio di bilancio, nel suo complesso il Financial Fair Play resta un incompiuto. Il sistema sanzionatorio si è dimostrato insufficiente”, ammette col senno di poi Ernesto Paolillo, ex amministratore delegato dell’Inter, che come dirigente dell'European club association (Eca) fu uno dei promotori del regolamento, varato dalla Uefa durante la gestione Platini. Nella primavera del 2020 la Uefa, per far fronte alla crisi pandemica, ha deciso di allentare fortemente i vincoli. Da un lato, ha considerato le stagioni 2019/20 e 2020/21 come un solo lungo esercizio economico. Dall’altro, ha consentito ai club di sterilizzare dai bilanci le perdite dovute in qualche modo al Covid: dal mancato incasso dai biglietti alla fuga degli sponsor. Per questo di fatto negli ultimi due anni i club hanno potuto spendere soldi che non incassavano, ricapitalizzando o facendo nuovo debito, senza curarsi troppo del rapporto fra entrate e uscite. Ma superata la crisi, il problema di come evitare che il calcio bruci più soldi di quanti ne produce si porrà di nuovo.
Per correggere le storture contabili del calciomercato, e il loro effetto tossico sui bilanci dei club, la Uefa da anni immaginava di modificare le regole del Financial Fair Play. La pandemia ha dato l’accelerazione che si aspettava. In aprile, finalmente, si conoscerà il nuovo regolamento, che potrebbe entrare in vigore gradualmente dal gennaio dell’anno prossimo, per poi produrre i suoi effetti in modo incisivo dal 2024. Il focus dei vincoli non sarà più sul solo pareggio di bilancio, ma più in generale sulla sostenibilità finanziaria del calcio intesa in senso ampio, tenendo conto non solo delle compravendite dei calciatori ma anche degli stipendi e delle commissioni pagate agli agenti. Per chi spende troppo, il numero uno di Uefa Aleksander Ceferin prevede una “tassa del lusso”, i cui proventi siano poi redistribuiti nel sistema. Ma ai club più virtuosi dal punto di vista finanziario, a partire da quelli di Bundesliga, non basta. Le società tedesche, Bayern Monaco in testa, chiedono severe sanzioni sportive per chi sfora i vincoli di spesa, nella speranza di limitare lo strapotere economico delle società possedute da fondi sovrani di Paesi produttori di petrolio, come il Manchester City, il Paris Saint Germain e il Newcastle.
La revisione del Financial fair play non è la sola grande riforma al sistema dei vincoli finanziari che la pandemia ha portato al calcio. Anche a livello nazionale qualcosa si muove. La Figc si prepara a ripensare l’indice di liquidità, che oggi impedisce di operare sul mercato a tutte le società che hanno un rapporto peggiore di 0,6 fra spesa e incassi. Il caso più noto nelle ultime stagioni è quello della Lazio, che ha subito forti limitazioni nella possibilità di fare mercato in entrata. Questo parametro dall'anno prossimo diventerà direttamente un requisito per iscriversi al campionato, mentre per fare acquisti sul mercato non si potrà sforare il costo del lavoro nella stagione precedente. Paletti che possono essere superati solo con aumenti di capitale, non contraendo nuovi debiti.
I procuratori contro la Fifa
Nel racconto collettivo del calcio, il ruolo dei cattivi spetta sempre ai procuratori. Lo scorso novembre Mino Raiola, terzo agente di giocatori più ricco al mondo con 84,7 milioni di dollari incassati nel 2020, a margine dell’ultima assemblea dell’Italian association of football agent, ha scandito:
"Le regole della Fifa sono vergognose, con loro non c’è nessun dialogo"
Una dichiarazione di guerra alla Federcalcio mondiale, che dopo anni di annunci si prepara a porre paletti allo strapotere degli agenti, come chiesto a gran voce da quegli stessi club che poi con gli agenti inevitabilmente fanno affari. La Fifa è pronta a creare una clearing house che intermedi i pagamenti fra società calcistiche, di modo da contenere le quote versate ai procuratori. La soglia massima potrebbe essere del 6 per cento sul volume complessivo di ogni affare, tenendo conto di costo del cartellino e ingaggio del calciatore. Nel nuovo impianto, il 3 per cento sarebbe pagato dal calciatore e un altro 3 dal club acquirente. Un’ipotesi più morbida, su cui ragionano a Zurigo nel quartier generale del calcio globale, è che la soglia sia fissata al 10 per cento, come avviene già oggi in Francia, unico fra i più influenti Paesi del calcio in cui legislatori e vertici del pallone abbiano deciso di frenare lo strapotere di agenti e intermediari.
Già oggi la Fifa raccomanda che le provvigioni non eccedano la soglia del 3 per cento del valore del cartellino dei giocatori oggetto di compravendita. Ma non essendo previste sanzioni per chi sgarra, l’indicazione è parola morta. Nei fatti, gli intermediari arrivano a intascarsi anche il 15 per cento sul totale del volume economico del trasferimento. Il nuovo sistema dovrebbe trovare applicazione dal prossimo luglio. Sempre se i procuratori non decideranno di rivolgersi alla Corte di giustizia Ue, come paventato, per lamentare limitazioni al libero mercato.
Un report della Fifa registra come le commissioni per intermediazione nel mercato dei giocatori siano salite nel mondo oltre i 500 milioni di dollari. Il 96 per cento della somma origina da acquisti di club europei. “Benché la spesa per i trasferimenti sia stata in calo per il secondo anno consecutivo (-14 per cento nel 2021 e -23 per cento nel 2020), le commissioni agli agenti hanno segnato un aumento dello 0,7 per cento”, si legge nel report. Ad avere arricchito maggiormente i procuratori sono i club inglesi, con 133 milioni versati nell’anno solare. Poi vengono i tedeschi con 84 e gli italiani con 73. Fin qui, gli importi censiti e registrati. Ma il sospetto è che il flusso reale di denaro dai club agli agenti sia in realtà molto maggiore. Anche perché, sulla carta, solo il 20 per cento dei trasferimenti dell'ultimo anno avrebbe coinvolto un intermediario: è lecito pensare che la percentuale sia di molto sottorappresentata.
La sfida per il futuro
Insomma, che il sistema globale sia vicino, se non oltre il punto di non ritorno è piuttosto evidente. E l'Italia, con la propria allergia al vento riformista, rischia di accelerare il rischio di un collasso del movimento. Il vero salvagente del pallone italiano può essere la sfida di Euro 2032: organizzare un grande evento internazionale, oltre ad accendere i riflettori sul nostro movimento, potrebbe far confluire nei prossimi dieci anni soldi veri da destinare a nuovi impianti: una necessità di cui si parla da almeno vent'anni, senza che nel frattempo nulla o quasi sia stato fatto realmente, tra ostacoli politici e immobilismo delle società. Un campionato con impianti più belli potrebbe tornare ad attirare il pubblico. E scongiurare il rischio di un default di sistema.