In una cosa son bravi, nel rovinare anche gli omaggi a un campione che ci ha lasciato:
Paolorossi (tuttorigorosamenteattaccato) non è un giocatore. Neanche un campione del mondo. Perlomeno per me, che in quegli anni non ero né previsto né prevedibile.
Paolorossi è un racconto di un torrida estate, quella dell'82, la cornice perfetta per un'avventura in Spagna che farebbe impallidire anche i migliori eroi picareschi.
Ci si muove in macchina dallo stivale. Senza internet, google maps o l'app per il meteo che ti dice quando, come e dove si abbatterà il fortunale di turno. E' l'Italia speranzosa e vogliosa degli anni 80, che parte alla conquista di Barcellona con il bagaglio pieno di speranze e qualche soldo in tasca.
Pochi, per carità, ma quelli che bastano per munirsi dell'essenziale: birra, cappellini con scritta Forza Italia ('Mi consenta' era ancora inquadrata come semplice formula di cortesia) e un carnet di biglietti delle gare. Perché tra le ramblas i biglietti si acquistavano così. In blocco, sui cofani delle auto, 600/800 pesetas circa.
Un calcio del popolo, con eroi popolari in campo. Come quel numero 20 azzurro, esile come un ramo e letale come una vipera. Che ha oscurato in rigoroso ordine Maradona, Falcao e Boniek. Paolorossi non è stato il miglior calciatore di quel mondiale. Neanche un pallone d'oro. Perlomeno per me.
Paolorossi è stato è sarà un racconto di una valigia che si chiude e di una macchina che riparte. Alla vigilia di Italia-Germania Ovest, una gara con esito scontato.
Tanto in campo c'era Paolorossi.
Gianluca Viscogliosi
("Crampi Sportivi", pagina facebook)