il commento
La Capitale che esce dal letargo (Corriere dello Sport)
di Marco Evangelisti
Il Cristiano Ronaldo della Roma non dribbla, non sfonda sulla fascia, può segnare diversi gol ma in senso metaforico. Soprattutto, non va via ogni volta che si alza il vento e a lui o ai suoi rappresentanti viene in mente che bisogna tentare di vivere da qualche altra parte. Non è una decorazione squisita, è la base della torta. Lo stadio di cui si parla da dieci anni e di cui ad andare bene ma proprio bene si dovrà fare a meno per altri quattro.
Ieri era il settimo giorno di luglio, la data da qualche profeta detta che avrebbe dovuto portare in giallorosso il grande bonbon di mercato, l’avvento del secondo messia dopo lo smisurato atterraggio di Mourinho. Ha portato invece un fragile e magro comunicato, qualcosa di simile a una promessa pronunciata al vento, una dichiarazione d’intenti esposta alle diecimila cose che possono succedere nell’universo, novemilanovecentonovantanove delle quali negative. Però è un primo foglio in attesa della prima pietra. E ha l’aria di essere molte volte più solido, come promessa, di qualsiasi precedente spettacolo messo in scena nelle sale luccicanti del Campidoglio con sindaci, urbanisti, assessori spenti e plastici coreografici.
Inutile star qui a ripetere perché non si fa calcio di vertice autentico oggi senza uno stadio moderno e in uso esclusivo da etichettare e sfruttare a proprio piacimento. Basterà ricordare come la Juventus nei primi cinque anni di attività del suo impianto abbia quintuplicato gli introiti derivanti dalle giornate di partita, arrivando a 66 milioni nella stagione precedente il Covid, come da report annuale della Deloitte. Mentre il Barcellona, maestra di vita nel settore, aveva toccato quota 158. Meglio della vendemmia di una Champions.
Saranno calcoli divertenti con cui giocherellare, quando i soldi cominceranno ad affluire davvero. Ciò che oggi ci chiediamo e si chiedono i tifosi della Roma è perché mai bisognerebbe credere a questo foglio di carta, o a questo messaggio effimero come tutti gli enti digitali, dopo essere passati attraverso nuvole di coriandoli, annunci roboanti, meaviglie architettoniche, due inversioni di marcia politiche nell’amministrazione della città, veti del sovrintendente, progetti storpiati, accordi disattesi, ansie per l’attività riproduttiva delle rane salterine, ed esserne usciti a bocca asciutta.
Ebbene, tanto per cominciare non c’è più una giunta ideologicamente contraria, infastidita e atterrita da ogni iniziativa privata, tendente a fare un unico fascio di attività e corruzione, imprenditorialità e illecito. Non c’è più neppure un progetto fantasmagorico, colossale, se vogliamo megalomane. Ci sono prudenza, invece, commercio a misura d’uomo e di contingenza economica, una struttura d’intrattenimento al passo con i tempi. C’è una zona da valorizzare sì, ma non da terraformare, non da ricreare completamente come fosse un nuovo universo e neppure un nuovo quartiere. Ci sono infrastrutture già pronte e opere pubbliche da realizzare in misura ragionevole.
Ci sono soprattutto una città in letargo da riscattare e un’amministrazione che ha colto il senso simbolico di questo stadio in embrione: seppellire anni di pigrizia patologica, di paralisi del coraggio, di aziende in fuga e posti di lavoro dispersi, di grandi rifiuti, di Olimpiadi respinte per tremore e ignoranza, di rassegnazione al crepuscolo e fughe dal futuro.
Per quanto ci riguarda, noi osserveremo con partecipazione e sorveglieremo con serietà.
Dall’altra parte abbiamo la proprietà di una squadra di calcio che non comprende perché mai il nome Roma debba restare un relitto dell’antichità e non lo accetta. Probabilmente dieci anni fa qualcuno non aveva capito. Adesso sì.