Ci sono momenti della nostra vita che ricordiamo per sempre, esattamente per come si sono svolti, come abitino in un tempo sempre presente incapaci di sfumare nella foschia del passato. Alcuni di questi riguardano la dimensione privata, quelle delle persone care, degli amici, degli affetti più vicini. Altri, invece, appartengono ad una coscienza collettiva, pubblica, che a distanza di anni sono ancora picconati nella nostra mente e nella nostra memoria, e si alimentano con le emozioni.
C’è chi sa perfettamente dove si trovava o cosa stava facendo quando le radio annunciavano l’omicidio Kennedy, o le tv mostravano l’impronta del primo passo dell’uomo sulla luna. Altri hanno ben presente la gioia di fronte all’urlo di Tardelli in Spagna e di Grosso in Germania, o lo sbigottimento conseguente alle immagini di Aldo Moro, contorto dentro il bagagliaio della Renault 4 rossa, o degli aerei polverizzati sulle torri gemelle l’11 settembre del 2001.
Io, invece, ricordo esattamente le 18:04 del 14 maggio del 2000.
Non ero all’Olimpico, evidentemente. C’ero stato, e per la prima volta, qualche mese prima. Lazio-Inter, un 2-2 all’ultimo respiro con il tap-in vincente di Pancaro sotto la traversa, che sembrava però utile solo alle statistiche. La Juve era già lontana, e lo sarebbe diventata ancor di più la settimana successiva, quando la Lazio avrebbero perso 1-0 a Verona.
Eppure l’anno era cominciato bene, con l’inchino di Salas in faccia agli invincibili diavoli rossi di Sir Alex Ferguson.
Ma il campionato era ormai andato, un’altra occasione persa, un’altra delusione. L’ennesima.
L’anno prima una Lazio probabilmente superiore a quella del 2000 aveva buttato al vento (non da solo per demeriti propri, per la verità, ma questa è un’altra storia) uno scudetto quasi vinto contro un Milan inferiore e fortunato.
Recuperare nove punti alla Juventus di Zidane e Del Piero (ma anche di Giraudo, Moggi e Bettega) con sole otto giornate da disputare era, adesso, impresa disperata.
Di più, era impossibile.
Per me e la maggior parte dei tifosi, per la statistica, per quegli anni, in cui nessuno portava a casa nulla al di fuori della Milano-Torino.
Ma non per la testa di Simeone, per i polmoni di Almeyda, per l’interno piede di Veron, per il sinistro di Sinisa, per il cuore-acciaio di Nedved, per la classe del Capitano.
E, allora, l’impossibile diventa improvvisamente di nuovo possibile.
Basta non smettere di credere e l’uomo in fuga, la Juventus, è di nuovo lì, distante solo un colpo di pedale.
Il 7 marzo del 2000 sono sulle scale di casa, ho in mano il walkman e nelle orecchie “tutto il calcio minuto per minuto”. La Lazio ha vinto a Bologna nonostante Beppegol, mentre la Juve arranca con il Parma, ma a pochi minuti dal termine è ancora in vantaggio 1-0.
Poi, al 90esimo, Marcio Amoroso calcia un angolo, Cannavaro svetta in mezzo all’area e colpisce la palla che sbatte una volta a terra e poi colpisce la parte interna del palo di Van Der Sar.
Gol!!!
Il mio urlo rimbomba nella tromba delle scale, poi oltrepassa la porta di casa, attraversa la strada, riempie il quartiere.
1-1, la Lazio ha riacciuffato la Juve e l’inafferrabile uomo in fuga è stato raggiunto un metro prima del traguardo.
Ma è un attimo. L’arbitro, De Santis, annulla il gol.
Il perchè non si sa, o forse si.
Anche lui sa di averla fatta grossa, troppo, persino per tutto il marcio nel quale galleggia il calcio in quegli anni, tanto da sentirsi in dovere di dare spiegazioni appena dopo la fine della partita, nonostante sia vietato all’arbitro, a qualunque arbitro, di rilasciare dichiarazioni dopo un match. Dirà di aver visto un fallo, di aver fischiato prima del colpo di testa e che, di fatto, non si può parlare nemmeno di gol annullato.
Ma è una menzogna e lui farfuglia, gratta una superficie che è liscia come quella di uno specchio.
E, infatti, scivola sulle immagini che raccontano un’altra storia, di un fischietto che si riempie d’aria, ma soltanto dopo che la palla colpita da Cannavaro riempie la rete.
Ha le mani sprofondate nella marmellata, De Santis.
Le mie no, le mie hanno ancora in mano il walkman. Ancora per poco, perchè con tutta la forza che ho schiumando rabbia scaravento quel povero agglomerato di plastica e circuiti elettrici sul duro marmo bianco delle scale di casa.
Va in frantumi in un ovattato lamento, come i miei sogni di tifoso.
Le uniche urla adesso sono quelle di mia madre, che addirittura mi caccia di casa.
E’ andata. Finita. Di nuovo. Inutile combattere contro chi, semplicemente, non è battibile.
Mi impongo di non seguire più il calcio. E’ un gioco, certo, ma non sono disposto a giocare ad un gioco in cui persino la possibilità di vincere è preclusa.
Arriva il 14 maggio del 2000. Si gioca l’ultima giornata di campionato, la Lazio in casa contro la Reggina, la Juve a Perugia.
Ma è un bluff, una gara con i dati truccati.
Io me ne vado a Barcellona (Pozzo di Gotto), c’è una bellissima giornata e c’è una gara sette di play off di basket da vivere. Una partita vera, per la quale ha senso palpitare di emozione, dedicare il mio tempo di appassionato di sport.
Lontano dagli occhi, lontano dal cuore.
Come me la pensano migliaia di tifosi, e infatti a Roma, per protesta, nessuno entra allo stadio.
Non entro nemmeno io nel palasport di Barcellona, ma soltanto perché è stracolmo di persone, e non c’è spazio neanche per uno spillo.
Non è proprio giornata, e non mi resta che tornare a casa. Di quello che accade a Roma e a Perugia non so nulla. Il walkman è rotto, ormai.
Sulla strada del ritorno non vedo festeggiamenti e sfilate, eppure le partite dovrebbero essere finite da un pezzo.
Alle 17:15 entro in casa, la tv è accesa, c’è ancora in onda “Tutti quelli che il calcio”.
La Lazio ha vinto, 3-0 sulla Reggina.
La Juve, per un assurdo scherzo del destino, è ancora in campo.
Su tutta l’Italia splende il sole ma a Perugia, solo a Perugia, un temporale violentissimo ha costretto l’arbitro Collina a sospendere la partita per più di un’ora.
Un’altra beffa, penso. Non sono riuscito a vedere il basket e adesso il destino mi costringe a vedere la fine della farsa del campionato 99-00 in diretta.
Poi, il cielo sopra Perugia si apre. Segna Alessandro Calori, difensore.
La Juve sta perdendo 1-0.
Ma è solo sadismo, penso, un’illusione, perché in attimo tutto andrà come deve andare.
Prima un gol e poi un altro, e via i festeggiamenti a piazza Castello.
I minuti passano, lentissimi, e io giro nervosamente attorno ad un tavolo, infischiandomene di mia madre che non capisce e mi suggerisce di pensare all’esame di stato.
Aspetto il colpo di grazia, aspetto il gol della Juve come si aspetta la fine del giorno, inevitabile.
Arrivo a pensare che, in fondo, anche un pareggio non sarebbe male. Significherebbe pari punti in classifica, e scudetto da assegnare in uno spareggio a partita secca. Viste le premesse, sarebbe un risultato eccezionale anche questa possibilità.
Ma i minuti passano, sempre più lenti, la Juve non segna e io mi trovo immerso in un liquido amniotico.
A Roma l’Olimpico è pieno di tifosi che hanno invaso il campo, e anche i giocatori ormai sono diventati tifosi e si aggirano come automi impazziti nella pancia dello stadio.
Anche Salas è raccolto davanti ai monitor, sembra si stia inchinando come dopo un gol.
Poi, dalla tv, o dalla radio, o da un’altra dimensione la voce di Riccardo Cucchi di “tutto il calcio minuto per minuto” in collegamento da Perugia urla: “Collina dichiara concluso il confronto. Sono le 18.04 del 14 maggio del 2000, e la Lazio è campione d’Italia”.
Nick Hornby diceva che “il calcio non lo puoi capire, se non ci sei dentro”.
Sono dentro la mia macchina con alcuni amici antijuventini. Io, per ovvi motivi geografici, sono l’unico vero laziale.
Ma non importa, sfiliamo insieme tra le vie del paese per celebrare la vittoria della Lazio.
Ho distribuito a tutti sciarpe, bandiere e maglie biancocelesti, tirate fuori dal mio armadio per l’occasione.
Tutte, tranne una. Un amico milanista indossa la maglia del Cile.
E’ la 11.
E’ quella di Salas.
E’ proprio vero che, come scrisse un giornale argentino quel giorno, Dios es del Lazio.