Ho trovato questo raro (trattandosi di quella fogna di repubblica) e bellissimo pezzo su un Valentino Zeichen, poeta, laziale.
Il calcio celebrato in versi, storia del poeta laziale che viveva in baracca
di Marco Patucchi
Valentino Zeichen è ritenuto uno dei maggiori poeti italiani del Novecento. “Dandy e paradossale”, secondo Magrelli e con una passione per la maglia biancoceleste di cui ha lasciato tracce
“Prima si aveva la fortuna di cominciare leggendo dei geni senza dover passare per la mediocrità”. Sembra di sentirlo pronunciare una delle sue folgoranti verità, guardando tutti i libri che ancora sono lì a riempire la casa-baracca dove Valentino Zeichen ha vissuto la straordinaria esistenza di poeta. “Dio si può anche ripetere, il genio no” scriveva in un aforisma e, certo, non pensava a sé stesso perché proprio la scelta di accamparsi in una delle cinque abitazioni abusive di Borghetto Flaminio, ancora oggi enclave fuori dal tempo a due passi da Piazza del Popolo, era la prova dell’assenza di ogni presuntuosa autoreferenzialità. E sorprende, ma solo per chi non conosce nel profondo la storia di Roma, oltre le convenzionali rappresentazioni buone per i turisti, scoprire tra un volume e l’altro che sono ancora sugli scaffali i cimeli della sua passione per le maglie biancocelesti della Lazio. Amore che lui non nascondeva, ma che questa città ha presto dimenticato perché, a dirlo con un altro grande laziale, Edoardo Albinati, “le minoranze sono destinate a combattere contro tutto e tutti per affermare la propria esistenza. E scegliamo di farne parte proprio per questo”.
Insomma, se uno dei maggiori poeti italiani del Novecento si fosse dichiarato tifoso dell’altra squadra di Roma, sicuramente sarebbe stato vanto e narrazione pubblici. “Se di me sopravviverà un nulla di qualche movimento – verseggiava invece Zeichen – sarà il cognome scritto all’estremo della tabella di una linea d’autobus…”. Profugo di Fiume, arrivato nella Capitale con il padre nel 1954, vivrà l’intera sua parabola di uomo e di artista (dalle prime poesie con Guanda, alle pubblicazioni con Mondadori e Fazi) fino alla morte nel 2016, nella casa-baracca che, oggi, è in attesa del vincolo di tutela e salvaguardia da parte della soprintendenza per trasformarsi nella ‘Casa del poeta’ di Roma. Una scelta esistenziale, quella di Zeichen, da “poeta dandy e paradossale” come lo definiva Valerio Magrelli, da “uomo non facile, fiero e ostile a ogni compromesso” a dirla con Luigi Manconi (ma ogni minoranza, dunque anche quella laziale, è per definizione fiera e ostile ai compromessi). Inoltre, una prova di proto-ambientalismo, la vita fatta del minimo, lontanissima dai consumi esorbitanti che stanno affondando il pianeta.
Dicevamo dell’amore biancoceleste di Zeichen, la Lazio scelta “per i colori del cielo di Roma: azzurro con a volte, qualche pennellata di bianco”. E poi la passione sconfinata per un giocatore su tutti, ma senza mai dimenticare tutti gli altri, anche i meno iconici si direbbe oggi: “Un remoto Lazio-Juventus; tre a zero, esplode l’anonimo urlo di trionfo, sì; ma chi ha recapitato al presente il nome di quel gladiatore: Bruno Giordano che si distinse durante i giochi per l’incoronazione dei titoli di Augusto; con qualche punteggio sconfisse le fiere zebrate, se l’ovazione riservatagli dalla folla superò i cento decibel, sopravanzando quella resa di consueto all’imperatore?”. Bruno Giordano, romano di Trastevere, il quartiere che onora con una statua un altro poeta con sorprendenti radici biancocelesti almeno a giudicare da una meravigliosa, anche se tutta da verificare, ricostruzione storica e fotografica. I poeti e il calcio, un amore che spunta qui e là, come succede per Pierpaolo Pasolini che ne scriveva e che, soprattutto, lo giocava (Zeichen, però, non amava Pasolini: “Come poeta non mi interessa. Per me il più grande di tutti rimane Montale”). O come succede nel rettangolo verde quando a verseggiare sono direttamente i grandi calciatori: nella prefazione di un libro di Giancarlo Governi (‘Bruno Giordano, una vita sulle montagne russe’, Fazi Editore), Albinati riferisce che per Zeichen i “movimenti di Giordano e il modo di mettere il corpo prima di ricevere il pallone e al momento di calciarlo, avrebbero dovuto essersi proposti nelle scuole come modelli basici, poi si correggeva aggiungendo che quelle cose non si insegnano”.
E a proposito di poesia in campo, sfogliando sempre il libro di Governi ecco Giordano che strappa il cuore a tutti noi innamorati, al di là dei colori, di un calcio che non c’è più: “L’ultima volta che ho affrontato la Lazio sul campo è stato ad Ascoli, alla fine della carriera. All’ultima giornata di campionato la Lazio aveva bisogno di un punto per non tornare nel baratro della retrocessione e la partita si stava concludendo sul pareggio. Quando, non so come, mi ritrovo solo davanti al portiere laziale Fiore. Si dice che quando uno sta per morire in pochi secondi riavvolge il nastro della vita, di cui rivede tutti i momenti salienti. Io in quel momento mi sono rivisto Flacco Flamini al provino, ho visto Guenza, Paolo Carosi, ho visto la palla entrare in rete a Genova nel mio primo gol in serie A, ho visto Tommaso (Tommaso Maestrelli, ndr) e poi Cecco (Luciano Re Cecconi, ndr), ho visto i giorni terribili della squalifica, mi sono visto insieme a Manfredonia che in chiesa giuriamo di riportare la Lazio in serie A, mi sono rivisto sul campo di Pisa che depisto per due volte la palla in rete con la gamba infortunata ancora debole…ho visto il sor Umberto Lenzini gioire e piangere…ho visto le facce dei tifosi…ho visto…ho visto e, anziché tirare in porta come avevo fatto tante volte, ho passato la palla al portiere laziale. Avevo saldato ancora una volta i debiti con il mio passato”. Poesia, appunto.
https://www.repubblica.it/dossier/sport/laltra-domenica/2024/02/09/news/il_calcio_celebrato_in_versi_storia_del_poeta_laziale_che_viveva_in_baracca-422080990/?ref=RHLM-BG-P5-S7-T1