Se qualcuno mi chiedesse che cosa ha rafforzato il mio senso di appartenenza alla SS Lazio gli farei leggere l’intervista di Ultimo con un laconico “qui è tutto”.
Esiste una forma di idolatria, un estremismo sciocco e preoccupante che pervade una parte (certamente maggioritaria) della città.
È lo stesso agente patogeno che spinge un padre a rinunciare a presenziare alla tesi di laurea della figlia (da papà non la perderei per nulla al mondo, figuriamoci per una partita di pallone).
È quel virus che ha indotto un mio collega - pochi giorni dopo aver assistito assieme alla performance artistica della figliola - a chiedermi, avendo io rinnovato i complimenti: “ma è per la finale?”.
L’articolo del Corriere si apre con una domanda, piuttosto banale: quella sul primo ricordo.
“Lo scudetto”.
Si conclude con un aldilà “giallorosso”. Nel mezzo il vuoto, il nulla tra gossip, le canne, il parcheggio del quartiere e il consueto “non so’ de sinistra ne’ de destra”.
Ecco
1) è bizzarro, grottesco che una persona che calciatore o sportivo non è identifichi la propria esistenza nei colori sociali della propria squadra;
2) lo è ancora di più ed è avvilente se si considera che, al di là (non giallorosso) di questi, confessa di non nutrire alcuna altra convinzione solida (che sia religiosa o politica),
3) simili atteggiamenti, purtroppo, si verificano solo a Roma. Ricordate qualche personaggio pubblico anche napoletano (realtà dove il tifo è intendo ed esiste un unico club) proporsi in un modo simile, dall’alfa all’omega?
4) perché accade? Certamente la crisi dei valori di questo tempo incide. Ci si aggrappa a qualcosa che non viene percepito come “divisivo”, che viene tollerato. Dichiararsi “socialista” o “conservatore” ti espone. Anche identificarti con la Juve, l’Inter, persino con la compagine partenopea non ti esonera da critiche, mugugni.
Nel nostro caso esiste, è stata creata una comfort zone, alimentata dai media.
È davvero una fede, la fede dei mediocri