C'è un antico mito greco che si addice particolarmente alla nostra Lazio e al nostro destino di Laziali: il mito di Sisifo.
Narrano le antiche cronache che Sisifo, re di Corinto, sorprese Zeus ad amoreggiare con una bella ninfa e spifferò il fatto nelle alte sfere. Dopo una serie di rocambolesche avventure che esulano dal mio discorso, fu castigato dagli dèi a trascinare un macigno fino al vertice di una montagna, raggiunto il quale il macigno ricade a valle, costringendo il nostro eroe a ricominciare la massacrante salita, per tutta l'eternità.
Il mito di Sisifo è sempre stato sinonimo di destini umani che arrivano continuamente a un passo dall'impresa ma che mai la raggiungono, perdendo beffardamente quello che avevano conquistato, come acqua che scivola via tra le dita.
Oggi non ho visto il derby.
Cosa c'entra quest'ex abrupto con quel che ho detto finora? C'entra. Avevo brutti presentimenti, tanto più che nei giorni scorsi mi sono limitato a commentare in topic da seconda pagina, cercando un contatto con la mia gente ma non avventurandomi né in commenti su fatti calcistici di cui - me ne sono reso conto con gli anni - ho molta meno competenza di tanti di voi, né sulle great expectations di dickensiana memoria di questa nostra bella Lazio.
Non ho visto il derby, non l'ho sentito per radio, sono nella penisola iberica e ringrazio Iddio di questa lontananza dall'invasione dei barbari. Me lo sentivo già, sapevo che la Lazio è Sisifo: lo scudetto del '74 e la morte del Maestro; il baratro della B e la resurrezione; i trionfi dell'èra Cragnotti, un'altro scudetto vinto e sùbito dopo la vittoria delle merde e il quasi fallimento; litigare contro l'Udinese per la Champions e buttarla via una e un'altra volta e, finalmente, un anno - questo - troppo bello per essere vero. Ho fatto due più due, me la sentivo. Sono riuscito ad arrangiare i miei orari di lavoro in modo da avere una riunione nel pomeriggio e non pensarci; la riunione è finita alle sei e avevo paura, cercavo di trattenere i colleghi, che credevano che fossi un po' pazzo (forse lo sono): non mi lasciate solo...
Niente, sono andati via. E io mi sono messo a tornare a casa a piedi sotto il sole di Cordova, Andalusia - trentasei gradi alle ore diciotto, oggi ha rinfrescato -, in giacca e cravatta. Ho avuto il desiderio di passare sotto l'antico tempio romano. Sì, perché Córdoba - Corduba in latino - l'abbiamo fondata noi. Qui è nato Seneca, chissà quante volte sarà entrato in questo tempio. Questa è la mia vera Roma: una civiltà fatta di filosofi retti e sereni, questo marmo che sfida il sole cocente, queste pietre che ardono e vincono il tempo, anche se l'Impero è in rovina.
L'Impero è in rovina, e mentre l'aquila continua a volare per mantenere alto il suo ricordo, i figli della lupa ne smembrano il cadavere. I lupi, animali che non venivano accettati nemmeno al Colosseo perché vili: sanno attaccare solo in branco.
Guardo l'orologio nel piazzale vicino al tempio: ore diciotto e trentasei, resisto alla tentazione di collegarmi col cellulare per vedere il risultato. La temperatura è scesa a trentaquattro gradi, mi fa bene sciogliermi al sole, perché sapere che nella direzione in cui si avvia a tramontare il sole la mia Lazio sta giocando contro quei vermi mi fa star male. Tanto male. È come quando sai che una persona che ami sta lontana da te e sta in difficoltà, e tu non puoi fare nulla. Dio, come sto teso... immaginarsi come dev'essere viverla sul campo.
Mi avvio a casa, ancóra a piedi, rischiando un'insolazione, arrivo intorno alle sette e mezza. Giuro che fino alle otto non guardo il risultato, sento - lo sento nelle vene, nell'anima - che il macigno di Sisifo è tornato giù.
Mia moglie mi aspetta, e un po' come un bambino piccolo le dico che non ho il coraggio di guardare com'è andata a finire. Lei - madridista come me - mi ricorda che i difettosi sono come le merde del Barça (salvo il fatto che non vincono mai un cazzo) e che ci sono anni in cui la merda straripa e bisogna sopportarla. Sii uomo, vediamolo, 'sto risultato. Abbiamo perso.
E a questo punto ho potuto dire: ma sticazzi. Me importa una mierda. L'angoscia che avevo sentito fino a quel momento si è dissolta.
Non so se la Lazio ha giocato bene o ha giocato male. Non so se l'allenatore ha sbagliato o no. So che è un buon (forse non buonissimo) allenatore. Non so se i giocatori hanno dato tutto. So che sono buoni (forse non buonissimi) giocatori. Non so se l'arbitro ci ha messo del suo: qualora fosse così, non giustificherebbe nulla, bisogna sempre essere più forti anche degli sgambetti.
Non so se vinceremo col Napoli. Non so se andremo in Champions o in Europa League.
Sinceramente non me ne può fregare di meno. Perché oggi pomeriggio, lontano dai barbari che staranno improvvisando caroselli e ululando alla luna, sento che Sisifo è pronto a ricominciare ancora, a salire ancóra su quella montagna, col suo macigno.
E Sisifo è questo meraviglioso popolo Laziale, questi meravigliosi figli dell'aquila che mi stanno leggendo e penseranno che sono pazzo. Questi araldi della civiltà romana in mezzo agli ammeregani di borgata. Sisifo è la Lazio, che cade, ma si rialza, è la linea retta di quelle colonne di marmo che si stagliano ancóra contro il cielo - bianco e celeste - e che dichiarano che pur se il tempio è caduto, loro saranno sempre lì a indicare che il destino è più in alto rispetto alle orge dei barbari.
Albert Camus, scrittore e filosofo franco-algerino, scrisse a proposito di del mitico re di Corinto: "Lascio Sisifo ai piedi della montagna: vi ritrova sempre il proprio fardello. Ma Sisifo insegna la fedeltà superiore, che nega gli dèi e solleva i macigni. Anch'egli giudica che tutto sia bene. Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice".
E felici siamo, perché siamo belli, perché siamo Laziali, perché - vada come vada questa stagione - noi non siamo loro, e non importa quante volte torneremo a trascinare il macigno fin lassù: più cercano di schiacciarci, più credono di averci colpito a morte, più forti siamo.
Vi voglio bene, Laziali. Forza Lazio, nel momento della delusione che delusione non è.