Ho visto ieri sera l'attesissimo "Rush", di Ron Howard.
Come lui ha detto più volte in centinaia di interviste, non si tratta assolutamente di un documentario, ma di un film. Di un soggetto e una sceneggiatura tratti da una vicenda reale.
Per gli appassionati di automobilismo sparsi in tutto il mondo, l'attesa non era spasmodica, ma quasi. Era dai tempi lontanissimi del capolavoro "Grand Prix" (1965) di John Frankenheimer e (forse da "Le Mans" girato nel 1971 da Steve McQueen, o meglio il regista che ha effetivamente firmato l'opera era Lee Katzin), che non veniva girato un film di corse "serio". Nel mezzo ci sono stati mezze bufale come "Giorni di Tuono" e vere e proprie buffonate come "Driven".
Per "Rush" no. E i risultati ci sono tutti.
Forte di una produzione fortissima (extra-Hollywood, a quanto ne so, credo sia di base Inglese) l'ex-Rikie Cunningham ha fatto le cose per bene, scegliendosi il meglio, dallo sceneggiatore Paul Morgan, quello di Frost/Nixon, fino al truccatore (magistrale davvero) che era quello che ha trasformato Meryl Streep in Margareth Tatcher. E non solo, la selezione dei montatori, musicisti, scenografi e direttori delle fotografia era quanto mai all'altezza. E poi gli attori.
Daniel Bruehl, che fa in maniera strabiliante Lauda (rubando la scena, artisticamente, persino al protagonista principe- James Hunt, a parer mio) è molto molto bravo. Per entrare in parte ha raccontato che lui Niki Lauda vero, quel signore arcigno di 65 anni che gira oggi nei box (e che un po' [...] lo è stato davvero, sempre), ha voluto frequentarlo da vicino per diverse settimane. E che Lauda l'ha ricevuto educatamente in casa sua, ma l'ha avvertito ancora sull'ingresso: "Non disfare le valigie, ragazzo, perchè se mi stai sul cazzo ti caccio via subito..."
L'Australiano Chris Hemsworth è ugualmente in parte, debbo dire. Forse, avendo conosciuto di persona i protagonisti reali della vicenda, fa un po' impressione la sua fisicità un po' più minuta, meno "invadente". Hunt quello vero era alto, con le spallone un po' gobbe, la facciaccia vissuta, la camminata sbilenca, simile in qualcosa al giovane Chinaglia per intendersi, ma più goffo. L'attore è molto più "bello", più pulito, molto meno graffiante. Comunque notevole anche lui, ripeto.
L'intento del film era, ovviamente, quello di appassionare (al film) coloro che appassionati di Formula 1 non sono e forse non sono mai stati, e magari mai saranno. Proponendo loro una storia plausibile, emozionante, a suo modo anche commovente, di sport, di sfide estreme, di amicizia virile vera, di vicende puro anni '70, con un taglio ovviamente moderno, accattivante, rumoroso e caciarone il giusto. Il "molto" giusto, non ci sono le spacconate di Bruce Willis, nè le idiozie impossibili di Fast&Furious. C'è una storia bella, un po' romanzata (forse troppo, detto da chi l'ha potuta vivere quasi in prima persona, da molto vicino), che nel secondo tempo avvince molto di più, fino ad un finale davvero serrato, di grandissimo impatto, molto buono.
Il primo tempo mi è piaciuto meno. Ero partito con una auto-raccomandazione molto seria: adesso non ti mettere a fare le pulci al film, a beccare le magagne e le incongruenze, ché non ha alcun senso. Howard l’ha detto, NON è un documentario.
Ok, mi siedo ma (ripeto, conoscendo troppo bene la vicenda) mi è venuto facile rilevarle le cazzate e, confesso, rimanerci anche un po’ male. Tipo i contrasti esasperati fra i due, le litigate e i dissidi, molto “filmici” ma molto inconsistenti, quasi tutto “cinematografo” via. Voglio dire, la Formula 3 inglese del 1970 (ricreata in maniera assolutamente magistrale, quelle Brabham e Lotus, con i colori originali, la pista di Crystal Palace vicino Londa che non esiste più da trent’anni ricostruita in maniera sublime, davvero uno sforzo enorme) era una categoria mostruosa. La chiamavano la Fossa dei Leoni, c’erano gare con pacchetti di mischia di trenta, trentacinque macchine una dentro l’altra per tutti i giri, tutti assatanati, tutti col coltello fra i denti, a urtarsi le ruote e darsi caracche invereconde in ogni curva… e a vincere all’epoca erano stati almeno una decina di piloti in tutta quella serie infinita di gare della stagione (correvano praticamente ogni weekend sopratutto in Inghilterra, ma anche in Europa, a Monaco, a Monza, al Nurburgring). Il film fa quasi capire che anche lì fu una lotta continua Hunt-Lauda, niente di più falso. Il giovane Lauda (due anni di meno di Hunt) si affacciò timidamente nella serie inglese con la sua Brabham privata, fece effettivamente una prima fila al Crystal Palace, come riportato nel film, ma per il resto dell’anno… non credo nemmeno che qualcuno del pubblico lo ricordi. Hunt invece in effetti faceva parte del top-level della Formula 3 di quell’anno, correndo spalla a spalla coi migliori, che erano Emerson Fittipaldi, Carlos Pace, Tim SChenken, Tony Trimmer, Mike Beuttler (tutta gente in seguito arrivata in F.1), ma soprattutto essendo rinomato per il soprannome Hunt-the-Shunt, Hunt-lo-Schianto, che gli avevano (chissà perché) affibbiato… Uno sfasciamacchine insomma…
Il film ne romanza troppo la fase-giovanile del primo tempo. Troppo. Poi, davvero nel secondo tempo decolla.
Avendo avuto l’onore di conoscerne qualcuno personalmente, devo dire che alcune scelte di attori a impersonare ruoli reali sono ottime. Una su tutti, Clay Regazzoni-Pierfrancesco Favino. Somiglianza fisica e di portamento del tutto plausibile, forse effettivamente Favino ancorchè truccato, è un po’ troppo grande. Regazzoni all’epoca aveva 33 anni, non ne aveva 40… Ottima l’attrice che fa Marlene Knaus, la prima moglie di Lauda, con cui ebbe due figli. Meno la moglie di Hunt, Suzy, che non è ben descritta, anche per il fatto che anche lei, pure se nel film sembra incredibile, con quel bellimbusto ci ha fatto due figli. Non all’altezza le altre “somiglianze”, davvero non opportune o addirittura trascurate. Tipo un banalissimo Enzo Ferrari (laddove Frankenheimer, cinquant’anni fa ci piazzò quel gigante di Adolfo Celi), un bruttissimo Lord Alexander Hesketh, e addirittura Montezemolo, all’epoca giovanissimo e rampantissimo direttore sportivo della Ferrari in camicia jeans (di Valentino…) e trasformato incomprensibilmente in una specie di capo-meccanico grosso e solido con i capelli ricci e le guancione rosse dal vino…
E soprattutto una dimenticanza seria. Questa sì, importante. Forse non funzionale alla storia, anzi, certo. Ma che avrebbe pututo dare un ulteriore taglio “mistico” (se mai ce ne fosse bisogno) alla vicenda: nel 1973 la Scuderia Ferrari era totalmente allo sbando. Venivano da quasi due anni di grandi successi, poi una macchina del tutto sbagliata, una serie infinita di ritiri, la stagione persa. A metà anno Jacky Ickx, la prima guida (una specie di Alonso di oggi) piglia e se ne va. E la squadra più importante del mondo rimane con un solo pilota, un ragazzetto secco secco di Como, un fascio di nervi , uno da 45 Marlboro al giorno, uno che ancora oggi a 70 anni suonati è ancora ingiro per circuiti a schiacciare, con macchinacce affittate, i capelli arricciolate, senza una lira e una passione per le corse perennemente bruciante: Arturo Merzario. Lui corre da solo le ultime gare dell’anno, con la macchina riveduta-e-corretta dall’Ing. Forghieri (che era stato precedentemente allontanato), e riesce tomo tomo cacchio cacchio a qualificarsi in una splendida terza fila al G.P. d’Austria (quella che oggi, a volte la Ferrari ancora si sogna…) . A fine anno la stampa italiana ne spinse a dismisura la riconferma, ma alla Ferrari prima ripresero in squadra Regazzoni e poi, grazie ai suoi buoni giudizi (avavano corso insieme alla BRM), scelsero il semi-sconosciuto Austriaco Niki Lauda. Ci furono settimane di fuoco sulla stampa italiana, si parlò di tradimento, Merzario fu costretto ad andare via, andò a correre alla Williams ma di fatto la sua cerriera in F. 1 ebbe fine. E Lauda, a Maranello vinse il Mondiale nel 1975 (dopo che Regazzoni aveva sfiorato il titolo l’anno prima).
Bene, tutto questo preambolo perché la nemesi arrivò due anni dopo, nel rogo del Nurburgring: uno dei quattro piloti che si fermarono a soccorrere Lauda, anzi quello che più di ogni altro si buttò dentro le fiamme, con un coraggio quasi disumano, lo afferrò per le spalle e lo tirò fuori da quell’inferno, fu proprio Arturo Merzario. Ma né lui, né Harald Ertl, né Guy Edwards e Brett Lunger ebbero da Lauda (che come ho detto, [...] era [...] davvero) ebbero mai, almeno ufficialmente, un grazie. Solo molti anni dopo (forse spinto da qualche sponsor, malignarono) Niki Lauda offrì ad Arturo Merzario un orologio TAG Heuer in segno di riconoscenza. Abbastanza fuori tempo massimo.
Consiglio: andatelo a vedere (e non lavoro per l’Agenzia di “Rush”…)