Il fattore demografico in questa storia ha il suo peso, ovviamente; (...)
Avevo editato il messaggio, con delle correzioni, ma questa mattina non le leggo più qui. Le ripropongo in corsivo.
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Il fattore demografico in questa storia ha il suo peso, ovviamente; "Il peso del numero" (semicit. Fernand Braudel), inoltre, è un elemento che aggrava la condizione di "sottosviluppo" di quello che un tempo era chiamato "Terzo Mondo", sebbene la parola "sviluppo" sia invisa a una buona fetta dell'ecologismo radicale (e in parte a ragione, anche se la discussione sarebbe lunga: vedi Serge Latouche). Quel "Terzo Mondo" che pagherebbe il prezzo più alto di un'eventuale (ma tuttora indecifrabile) catastrofe climatica.
Ma, ridurre il problema del riscaldamento climatico (o la povertà del Sud globale) alla mera quantità della variabile demografica, significa privarsi della possibilità di analizzare i fattori storico-sociali alla base di questioni così complesse.
È un dibattito vecchissimo, ma tuttora irrisolto. Semplificando:
Determinismo positivista contro storicismo (idelista e marxista).
Negli anni '60 - l'alba dell'ecologismo di massa - il saggio "The
Population Bomb", del biologo Paul Ehrlich, e le riflessioni dello scienziato Barry Commoner (che, semplificando al massimo, riduceva la "questione ambientale" ad un problema di arretratezza tecnologica dell'apparato industriale) venivano avversate proprio da coloro che, sull'onda del '68, criticavano il capitalismo considerato nella sua totalità: come base di relazioni sociali alienate e, contemporanemente, di un alienato rapporto tra la società, l'individuo e la natura.
Tra le tante voci di questo campo - marxisteggiante nell'immaginario collettivo, ma di un anarchismo multicolore nella sostanza - spicca quella del prete spretato Ivan Illich.
Detto che il cambiamento climatico e la questione ambientale (e le loro conseguenze) sono fenomeni cosí grandiosi e complessi che - purtroppo - la scienza del clima e la geomorfologia comprendono ancora troppo poco, pare comunque saggio agire collettivamente sulla base del cosiddetto "principio di precauzione", affidandoci alle informazioni di cui disponiamo e agli scenari che la modellistica piú avanzata ci permette di immaginare. Al limite - con una battuta - potremo dire di aver salvato vite dall'inquinamento.
Che fare, dunque? (cit.)
Agire - efficacemente, in nome di una diffusa giustizia sociale - su scala globale, si sta rivelando un'ingenua utopia; che i piú attenti osservatori avevano già smascherato in tempi non sospetti, mentre la maggior parte dei sapienti ripiega ora su posizioni che indicano in una vaga "speranza", nell'"amore tra i popoli", nella ecumenica "buona volontà" o - ancora peggio, perchè ancora più illusoria - nella sommossa globale delle moltitudini oppresse,
la soluzione di rischi che paiono cosí grandi e complessi da fare persino fatica a concepirne un rimedio possibile (non solo la questione ambientale, ma anche le crescenti disuguaglianze
sociali, i flussi migratori incontrollabili che generano inquietanti reazioni xenofobe su scala mondiale, lo scorazzare indisturbato di capitali speculativi che accrescono i problemi strutturali della finanza pubblica, la crisi di legittimità della politica e dello Stato, etc, etc: tutti problemi solo all'apparenza separati, ma in realtà interconnessi e i cui legami profondi andrebbero esplorati in profondità).La rivoluzione e il semplice tumulto sociale non ci porteranno da nessuna parte, temo.
Anche perché ormai - piaccia o no - si agisce su scala globale e i contesti sociali "adatti" allo scoccare della scintilla rivoluzionaria e, soprattutto, ad una sua fortunata e compiuta realizzazione,
non si contano più nemmeno sulla dita di una mano. Ma poi: rivoluzione per cosa? Verso dove?
La soluzione gradualista è sempre da preferire, se ci sono le condizioni ("maturità" dei ribelli e "illuminismo" della reazione),
anche se in una prospettiva storica di lungo periodo, ci si rende conto di come questa sia sempre stata l'eccezione, piuttosto che la regola, delle forme di cambiamento sociale. Ma muoversi gradualmente, come? Per cosa? E verso dove?
Non piú lontano ci porta il semplice cambiamento tecnologico, sulla cui natura -
le idee geniali non cadono dal cielo, pur non riducibili completamente alla sociologia - e i suoi effetti (benefici, ma complessi) ci sarebbe da discutere a lungo. Ma ancora: per cosa? E verso dove?
Tanti sono gli scenari, le questioni aperte e i problemi irrisolti.
Tanti gli interessi in ballo.
Tanti i protagonisti.
Ma soprattutto: é la scala spaziale a rendere complicata la soluzione dei cosiddetti 'rischi globali", come sono quelli climatici ed ambientali.
Come agire su scala globale, visto che disponiamo di strumenti la cui legittimazione politica ed ideologica, essenzialmente, é ancora fortemente legata agli stati nazionali?
Senza un serio - collettivo, condiviso - studio storico-sociale e filosofico di cosa siano il capitalismo e la "globalizzazione", e dei rapporti di questi con l'istituzione dello stato-nazione; senza tutto ciò, credo che sperare di comprendere ed affrontare il problema del rapporto tra il "genere umano" e la "natura" sia uno sforzo vano e (nell'ingenuità delle proposte che si avanzano) nel lungo periodo persino pericoloso.
Sui risultati degli scienziati naturali sono molto fiducioso.
Su quelli degli scienziati sociali e della stragrande maggioranza della riflessione filososfica contemporanea, decisamente meno. Senza l'apporto degli uni e degli altri, però, non si va lontano.
Purtroppo non mancano solo gli strumenti. Ma - a giudicare dal ripetersi di dibattiti che paiono nuovi nella forma, ma ripetitivi nella sostanza - purtroppo sembrano mancare anche le idee.