Si anderz ma chi guida quel processo sono gli stessi soggetti che qualche secolo fa hanno dato vita agli stati nazione? O quelli che l'hanno determinato nella sua forma attuale? O si tratta di altri soggetti? Non sono gli stessi?
E allora come si può pensare che si tratti di un processo analogo, solo perché afferma una sovranità entro un limite?
È assolutamente vero che con la Palestina, classica rivendicazione nazionale di carattere anticolonialista, questo processo non ci azzecca nulla. Il Kurdistan è passato da una rivendicazione di indipendenza classica a una contemporanea di natura diversa.
Ma ogni nuovo processo politico si afferma come sovranità entro un limite, che sia una città (la comune), una regione (chiapas, Catalogna, kurdistan), uno stato (più o meno quelli che conoscete), che ciò avvenga per accentramento o separazione non è una qualità IN SÉ.
Né si può credere, o nemmeno sperare, che le cartine del mondo rimarranno le stesse solo perché noi non sappiamo immaginare altro che il presente, fukuyama dixit. Cambiano da migliaia di anni, continueranno a farlo.
E pensare che la più compiuta, almeno limitandoci al socialismox fu proprio la più piccola. Non capisco quindi come una rivendicazione di indipendenza possa essere letta solo attraverso la ristrettissima lente della geopolitica.
Il fatto che la borghesia catalana sia contraria come ve lo spiegate?
Questo è determinante in politica, non dove piazzi il confine. Perché quel confine può significare tante cose diverse sulla base di COSA istituisce e non DOVE.
La frase "vonno solo paga meno tasse" è irricevibile perché schiaccia un intera società semplicemente sulla base nazionale (riconoscendo paradossalmente quel che si vorrebbe negare) e non sotto altri aspetti. Chi vuole pagare meno tasse? Chi ci guadagna dall'indipendenza? I capitali locali? Non sembra. I poveri? I lavoratori? I mangiatori di cozze? Chi?
Rispondere a queste domande, a prescindere dalla posizione che ne deriva, significa fare un analisi non una divisione semplificata stile risiko in cui tutto si riduce ad un'area monocolore su mappa.
In altre parole citando l'articolo:
Se non si capisce come e perché si è arrivati alla convocazione di un referendum che costituisce un atto di rottura nei confronti della legalità dello Stato Spagnolo e la creazione di un contropotere non si può che dare una lettura sbagliata degli eventi.
I consueti giudizi in voga in una sinistra ideologica quanto distratta e disinformata – “I catalani sono come i leghisti”, “I catalani se ne vogliono andare perché sono ricchi” – non si basano su alcuna seria analisi concreta, storica e politica.
A livello politico la “questione catalana” – che poi è la questione di uno Stato Spagnolo frutto di un processo di costruzione nazionale incompleto e quindi autoritario – ha una genesi ottocentesca che a sua volta ha origini assai più antiche. Niente a che vedere con le assai recenti rivendicazioni autonomiste messe in campo negli ultimi decenni dalla media e piccola borghesia di alcuni territori europei, che stritolata e indebolita dal processo di globalizzazione capitalistica e dalla tendenza continentale alla gerarchizzazione e alla concentrazione della ricchezza e del potere tenta di ritagliarsi una zona franca agganciandosi al carro tedesco. Da questo punto di vista – ne abbiamo già scritto – le vicende che hanno portato alla convocazione dei referendum per una maggiore autonomia in Veneto e Lombardia (presto potrebbe aggiungersi l’Emilia Romagna) sono di segno completamente opposto a quanto accade in Catalogna. E’ vero, certo, che una parte dei catalani aspira all’indipendenza perché pensa così di sottrarre le proprie risorse alla redistribuzione nei confronti dei territori più depressi prevista nel quadro dello stato unitario spagnolo. Ma è vero anche che la maggior parte degli indipendentisti non condividono questa visione egoistica, e che il movimento di emancipazione nazionale catalana ha un segno progressista, inclusivo, solidarista, frutto della forza e del radicamento delle forze di classe e dei sindacati e della tradizionale combattività popolare. [...]
Se nel caso delle regioni autonomiste del Nord Italia la rivendicazione leghista è frutto della mobilitazione e dell’espressione di una sola famiglia politica, nel caso catalano la mobilitazione indipendentista è trasversale e rappresenta l’aspirazione di un popolo intero.
Di più: se nel caso lombardo-veneto le classi imprenditoriali locali sono le promotrici del processo di autonomizzazione che potrebbe valorizzarne e rilanciarne il ruolo all’interno di una filiera economica europea sempre più centralizzata, in Catalogna la grande e media borghesia sono decisamente ostili al fronte indipendentista e al referendum del 1 ottobre, considerandolo un ostacolo alla propria integrazione all’interno della borghesia spagnola che le garantisce potere e proiezione internazionale (ad esempio nelle ex colonie latinoamericane). Le dichiarazioni di fuoco della Confindustria catalana contro la ‘secessione’ sono in questo senso più che esplicite e rimuoverle dal dibattito rappresenta un grave errore. Non si può rimanere indifferenti quando la quasi totalità dei sindacati catalani, compresi quelli di tradizione spagnolista, si schierano contro lo Stato, o quando migliaia di lavoratori portuali dei porti di Barcellona e Tarragona boicottano il dispositivo repressivo messo in campo da Madrid in Catalogna.
Mettendo insieme il ruolo della sinistra indipendentista nel processo di emancipazione nazionale del popolo catalano, l’ostilità della borghesia catalana nei confronti dell’indipendenza, la forte tradizione di mobilitazione democratica e antifascista di Barcellona, gli oggettivi problemi che la secessione da Madrid creerebbe ad uno stato autoritario e corrotto, per non parlare dell’instabilità prodotta all’interno dell’angusto quadro rappresentato dall’Unione Europea, non si può che dare un giudizio positivo delle spinte emancipatorie del popolo catalano.