Un tema molto serio da affrontare in tempo prima che sia tardi.
I No Pax ieri hanno squillato le trombe. La nuova iniziativa della Commissione europea sulla "protezione della democrazia e del processo elettorale" parla il linguaggio levigato delle burocrazie orwelliane del XXI secolo, ma l’odore è quello di un vecchio manuale di sorveglianza politica. L’UE dice di voler usare il suo Scudo per la Democrazia per difendere lo spazio pubblico da “manipolazioni”, “interferenze” e “campagne ostili”, ma lo strumento concreto che costruisce è un sistema di amministrazione del pensiero che separa l’informazione “affidabile” da quella sotto sospetto, come se la democrazia fosse una serra da custodire con pesticidi e controllori. È l’anticamera di un mondo in cui il dissenso sarà tollerato solo se filologico e ornamentale, mai se sostanziale.
Il problema non è tanto l’intenzione dichiarata, quanto semmai il dispositivo che la sorregge. Quando un potere politico decide chi è disinformatore e chi è “resiliente”, chi è manipolato e chi è virtuoso, quando le definizioni sono ampie e gommose e si legano a un tema incandescente come la guerra in Ucraina, inevitabilmente si apre lo spazio per l’abuso. L’UE non introduce censura per decreto: introduce un apparato che 'prepara' la censura, che la normalizza, che la rende un fatto amministrativo invece che politico. È la logica del “noi proteggeremo la vostra democrazia da voi stessi”, che ogni sistema di potere ama ripetere quando comincia a dubitare della propria legittimità.
Il secondo pilastro, ancora più insidioso, è quello del finanziamento diretto ai media e alle organizzazioni della cosiddetta società civile. Già oggi, in Italia e in Europa, intere testate sopravvivono quasi esclusivamente grazie a fondi pubblici, a programmi europei, a bandi che premiano chi sposa una certa visione del mondo: europeista, atlantista, “valoriale”, conformata ai codici della nuova ortodossia. È un modello che non censura con il manganello, ma con la sovvenzione. Il giornale che vive di fondi europei non ha bisogno di essere zittito: si zittisce da solo. Il giornalismo che dovrebbe controllare il potere diventa un suo dipartimento esterno. Questo meccanismo, inserito dentro il nuovo pacchetto sulla “resilienza democratica”, rischia di trasformare la stampa in una cinghia di trasmissione delle narrazioni ufficiali, con un effetto di “corruzione legalizzata” che mina alla radice il pluralismo. In Ucraina sono bastati pochi anni di questa cura per consegnare decine di milioni di persone al disastro. La scala è ora continentale, e molte lingue redazionali sono già rodate da anni di sudditanza.
Il punto, qui, non è ideologico: è costituzionale. L’articolo 21 della Carta italiana protegge la libertà di manifestazione del pensiero senza limiti preventivi e senza che esista un’autorità che stabilisca quali opinioni siano “affidabili” o quali fonti meritino cittadinanza nello spazio pubblico. L’articolo 49 tutela la partecipazione politica, che ha senso solo in un contesto di informazione non filtrata dal potere, mentre l’articolo 98 richiede alla pubblica amministrazione imparzialità e non adesione a narrative precostruite. Quando il potere politico–amministrativo definisce l’ortodossia e al tempo stesso finanzia gli attori deputati a diffonderla, si crea un corto circuito che la Costituzione non contempla e che avrebbe fatto rabbrividire i padri costituenti.
Tutto questo avviene mentre l’Europa si avvita in una spirale di riarmo colossale, e prepara le opinioni pubbliche all’idea che il nemico sia ovunque: nelle piazze, nelle periferie del web, nelle parole che non si allineano. La chiamano sicurezza, solo che somiglia sempre di più a un nuovo maccartismo d’ordinanza, alimentato da figure che hanno fatto della russofobia una professione, da Pina Picierno a Carlo Calenda, che non a caso adesso ci vengono proposti in tutte le salse dagli algoritmi social, laddove in piazza riescono a portare appena pochissimi sfigati, come ieri a Torino quei sedicenti "liberali" che volevano tappare la bocca agli studiosi di Gobetti e Gramsci.
La retorica è sempre la stessa: ogni dissenso è sospetto, ogni dubbio è un assist al Cremlino, ogni analisi che non coincide con quella della NATO è “interferenza straniera”. È un clima politico costruito su una patologica semplificazione del reale, indispensabile per preparare l’opinione pubblica alla grande riconversione economica e industriale che richiede l’economia di guerra europea.
La misura della Commissione non va letta in isolamento. È un tassello di una più ampia architettura ideologica che punta a blindare il continente dentro una narrazione univoca, con la scusa dell’emergenza permanente. E non è nemmeno necessario sforzarsi per immaginare scenari distopici: basta osservare la traiettoria degli ultimi anni. Ogni crisi — pandemica, energetica, geopolitica — ha prodotto un arretramento degli spazi democratici, una crescita del decisionismo tecnocratico, una riduzione del pluralismo. La novità è che adesso si vuole dare a tutto ciò una base normativa permanente, costruita intorno a un concetto di “democrazia difesa dall’alto” che, per difendersi, finisce per assomigliare ai sistemi che dice di combattere.
Rendiamoci conto del rischio: una democrazia in cui la verità è decisa per protocollo, in cui i media dipendono dal finanziatore pubblico, in cui il dissenso viene incasellato come “interferenza”, è una democrazia solo nel lessico, non più nella sostanza. E i nostri diritti costituzionali, purtroppo per Ursula e Pina, richiedono sostanza. I loro ascari e gerarchi sono già più abbaianti del solito, non fanno che polarizzare ogni spazio di discussione per far poi raccogliere ai loro danti causa i frutti della militarizzazione del dibattito.
Anche alle persone lontane dal mio pensiero, anche ai membri dei partiti totalmente inseriti nel paradigma europeista e atlantista, mi sento di rivolgere un appello: non sottovalutate l'intento liberticida di molti di quelli che militano nelle vostre fila! Avete vicini pericolosi che porteranno voi, i vostri partiti e interi paesi al totale disastro bellico passando per la definitiva manomissione dei media e delle elezioni. Serve il senno del prima, non quello del poi. Fermate la corsa del treno della guerra.
(Pino Cabras)