Michele e la sua lettera d'addio.

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Offline white-blu

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Re:Michele e la sua lettera d'addio.
« Risposta #20 il: 08 Feb 2017, 12:48 »
FD parla per me.

Offline Sonni Boi

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Re:Michele e la sua lettera d'addio.
« Risposta #21 il: 08 Feb 2017, 13:15 »
E' una questione di aspettative, o forse è meglio dire (come fa Michele) pretese, nei confronti della vita. Quelle di Michele erano molto elevate, a suo dire, per cui dubito sarebbe rimasto soddisfatto di un posto fisso e una situazione sentimentale stabile (posto che sia sincero in quello che scrive). Probabilmente si sarebbe tolto la vita in qualsiasi contesto ed epoca.

Chi cerca di ottenere tutto dalla vita non potrà che ottenere niente, perchè anche se otterrà qualcosa ne sarà comunque insoddisfatto.

Offline carib

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Re:Michele e la sua lettera d'addio.
« Risposta #22 il: 08 Feb 2017, 13:18 »
Da cittadino di una società “malata” di consumismo mi ritrovo perfettamente nell'analisi che ne fanno FD e pentiux. Ma da cittadino ed essere umano mi chiedo se in che modo si possano prevenire crisi senza appello come quella che ha portato questo ragazzo al suicidio. Se posso esprimere anche io un giudizio, questo ricade sull'errore che troppo spesso si compie nel confondere il pretesto con la causa che c'è dietro un suicidio. In quelle parole fredde e lucide IMHO è descritto in maniera precisisa il vuoto affettivo vissuto da questo ragazzo. La malattia è questo vuoto. Su questo vuoto va fatta la diagnosi (che non è un giudizio) per avviare una cura con il fine della guarigione. Nel caso di Udine purtroppo l'epilogo rende evidente che si trattava di una patologia conclamata, che quindi ha avuto un lungo decorso, che sicuramente - come sempre accade - ha presentato negli anni numerosissimi sintomi che progressivamente si sono acuiti fino a sfociare in psicosi. Una società che non mette in condizione il Servizio sanitario nazionale di intercettare in tempo certi sintomi per avviare una psicoterapia efficace, è una società “malata”. Una società che non mette ai disposizione dei familiari di chi soffre gli strumenti “culturali” necessari per cogliere il disagio, è una società “malata”. Una società che lascia dei genitori da soli contro il disagio dei loro figli, è una società "malata". Di una malattia terminale.
Questo, IMHO, è ciò che quel povero ragazzo ha denunciato veramente. Con il suicidio, più che con la lettera.
Re:Michele e la sua lettera d'addio.
« Risposta #23 il: 08 Feb 2017, 13:34 »
Mettiamola così: se "vogliamo tutto" (in senso lato e non rigidamente politico) è divenuta una malattia da cui guarire, io vi dico no grazie e che preferisco restare malato e farla finita il giorno che lo riterró il momento.

Chi ne ha voglia, capisce benissimo cosa intendere in quel "vogliamo tutto".
Non c'è da fare il tifoso in questo caso, ma quoto sull'argomento tutti i post di FatDanny.
E bene hanno fatto i familiari a rendere pubblica la lettera, anche quella molto lucida, secondo me.

Non sono un grande esperto di filosofia, ma mi viene in mente il pensiero di Emil Cioran che "...fornisce al suicidio una lettura totalmente inedita. Esso, anziché costituire l'espressione massima di disillusione e disperazione di fronte ad un'esistenza invivibile, è paradossalmente ciò che consente la vita. Ciò è possibile nella misura in cui l'esistenza è percepita in termini assoluti come lacerante costrizione inevadibile; in tale prospettiva, il suicidio rappresenta il carattere più pieno della libertà esercitabile dall'uomo che, nell'impotenza vitale, ha in ogni momento l'onnipotenza della cessazione del Tutto, la negazione estrema di ogni alterità insostenibile. L'uomo, in ultima analisi, può sobbarcarsi il peso della vita solo nella misura in cui sa di poter recarsi la morte." (cit. da wikipedia)

Online FatDanny

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Re:Michele e la sua lettera d'addio.
« Risposta #24 il: 08 Feb 2017, 13:40 »
La malattia non è nel ragazzo.
È nel sistema che lo ammala.
La cura non è al ragazzo, ma al sistema che fa ammalare.

Il sistema sanitario nazionale dovrebbe mettere in cura poletti e i suoi compari, confindustria e i suoi compari per perdita di umanita, non questo ragazzo.

Se non si cura il sistema (e ci vuole la politica e la convinzione che rovesciare questa realtà è possibile) io non voglio guarire da questa sofferenza, che ritengo paradossalmente sana.


Più sana di chi riesce a conviverci.

Offline TomYorke

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Re:Michele e la sua lettera d'addio.
« Risposta #25 il: 08 Feb 2017, 14:04 »
Sicuramente esiste tutta una dimensione privata che ha portato un ragazzo di trent'anni a suicidarsi che non conosciamo, e può essere vero quello che dice Pentiux, forse non è propriamente corretto riferire tutto all'ambito politico e al mondo del lavoro.
Però è innegabile che oggi, nella nuova generazione che affronta il mondo del lavoro, possa nascere quel sentimento descritto nella lettera. La sensazione di non riuscire a trovare una dimensione vera e propria. E non si parla di diventare top-manager, si parla di sentire di avere un ruolo in ambito lavorativo che ti consenta di determinarti.
Un certo sconforto per la qualità di alcuni colloqui, le condizioni generali di lavoro, possono mettere in crisi. Chiaro che a questa crisi bisogna rispondere in qualche modo, ma questo essere costretti a trovare sempre risorse interiori per reagire può essere logorante.
In più c'è quello che diceva Fat e che mi trova pienamente d'accordo. E' sempre più difficile trovare spazi nei quali poter mettere la propria voce per una risposta che sia però collettiva. Mi pare invece che la tendenza sia sempre di più a spingere il singolo individuo a farcela, che magari sarà pure un messaggio positivo, non lo so, ma ogni tanto ognuno di noi a bisogno di sentire di far parte di qualcosa.

Se c'è bisogno di dirlo, ma non credo, mi pare evidente che il problema non inizia né finisce con Poletti.
Re:Michele e la sua lettera d'addio.
« Risposta #26 il: 08 Feb 2017, 14:35 »
Ma da cittadino ed essere umano mi chiedo se in che modo si possano prevenire crisi senza appello come quella che ha portato questo ragazzo al suicidio. Se posso esprimere anche io un giudizio, questo ricade sull'errore che troppo spesso si compie nel confondere il pretesto con la causa che c'è dietro un suicidio. In quelle parole fredde e lucide IMHO è descritto in maniera precisisa il vuoto affettivo vissuto da questo ragazzo. La malattia è questo vuoto. Su questo vuoto va fatta la diagnosi (che non è un giudizio) per avviare una cura con il fine della guarigione. Nel caso di Udine purtroppo l'epilogo rende evidente che si trattava di una patologia conclamata, che quindi ha avuto un lungo decorso, che sicuramente - come sempre accade - ha presentato negli anni numerosissimi sintomi che progressivamente si sono acuiti fino a sfociare in psicosi. Una società che non mette in condizione il Servizio sanitario nazionale di intercettare in tempo certi sintomi per avviare una psicoterapia efficace, è una società “malata”. Una società che non mette ai disposizione dei familiari di chi soffre gli strumenti “culturali” necessari per cogliere il disagio, è una società “malata”. Una società che lascia dei genitori da soli contro il disagio dei loro figli, è una società "malata". Di una malattia terminale.

Invece secondo me aveva ragione Deleuze quando individuava nella psicoanalisi
uno strumento di normalizzazione dei desideri, una castrazione degli impulsi desideranti, che molto spesso sono per l'appunto "politici".
 
Re:Michele e la sua lettera d'addio.
« Risposta #27 il: 08 Feb 2017, 14:42 »
Il problema è che l'informazione negli ultimi 30 anni ci ha convinto che abbiamo bisogno di tutto.
E che solo raggiungendo questo tutto avrai la tua collocazione all'interno del quadro.

Solo che si sono dimenticati di darci gli strumenti per partecipare alla gara.

Chi arriva in fondo è solo un sopravvissuto.

Online FatDanny

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Re:Michele e la sua lettera d'addio.
« Risposta #28 il: 08 Feb 2017, 14:48 »
Invece secondo me aveva ragione Deleuze quando individuava nella psicoanalisi
uno strumento di normalizzazione dei desideri, una castrazione degli impulsi desideranti, che molto spesso sono per l'appunto "politici".

concordo.

Offline laziAle82

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Re:Michele e la sua lettera d'addio.
« Risposta #29 il: 08 Feb 2017, 14:59 »
Come sempre magnifica (IMHO):

L’ultima lettera di Michele

Michele era nato in Friuli trent’anni fa e, davanti a sé, aveva ancora tutta la vita. Ma a lui, di questa vita, ormai importava poco. Anzi, non gliene importava proprio nulla. Niente di tutti quei sogni che si possono avere quando si è ancora trentenni – e che talvolta si realizzano, talaltra vanno a infrangersi contro il muro della realtà. Niente di tutti quei progetti per i quali ognuno di noi si batte, lotta, litiga, si infiamma, piange, ride. Michele non ce la faceva più e, il 31 gennaio scorso, ha deciso di farla finita: ha scritto una lettera di addio, come spesso fa chi prima di morire vuol salutare le persone care, mescolando perdono, scuse e accuse, e si è ammazzato. Solo che in questo caso, a differenza di quasi tutte le altre volte, i genitori, la lettera, hanno deciso di renderla pubblica consegnandola al Messaggero Veneto. Per loro è un’evidenza che, a uccidere Michele, sono state l’assenza di lavoro e il precariato giovanile; per loro è chiaro che lo scritto del figlio è un atto di accusa contro il Governo.
Ma che cosa denuncia esattamente Michele? Chi sono i colpevoli di “alto tradimento”, come si legge alla fine della lettera? Per i genitori c’era solo l’assenza di lavoro che non andava nella vita del figlio. Michele era un ragazzo normalissimo, che viveva una storia normalissima in una famiglia normalissima. Anche se lui non ce la faceva proprio più ed era in cura per depressione. Il mondo sbriciolato. L’assenza di ogni speranza. Tutto e solo un peso. “Ho cercato di darmi un senso e uno scopo usando le mie risorse”, scrive il giovane. Subito prima di aggiungere: “Ma le domande non finiscono mai, e io di sentirne sono stufo”.
Non sono solo le domande, però, ciò di cui Michele era stufo. Il giovane, in realtà, era stufo di tutto: dei colloqui di lavoro che andavano male, ma anche delle storie d’amore che fallivano; delle disillusioni che viveva, ma anche della normalità della vita. Per non parlare poi di tutte quelle aspettative che sentiva pesare su di sé e cui non voleva assolutamente più corrispondere. Michele ammette che sono anni che fa a pugni con la realtà: una “realtà sbagliata”, per lui; una realtà da cancellare perché disposta a dargli solo il “minimo”: “Io non me ne faccio niente del minimo, volevo il massimo, ma il massimo non è a mia disposizione”.
Ma allora, di nuovo, che cosa denuncia esattamente Michele? Siamo certi che sia solo il precariato, e quindi il Governo, e quindi l’Italia – come pretendono i genitori e ripetono alcuni sciacalli che non provano pietà nemmeno di fronte alle tragedie e non esitano a strumentalizzare la morte di un povero trentenne, tanto tutto fa brodo quando si tratta di accusare le istituzioni e i poteri pubblici, sono loro che tradiscono, sono loro che istigano al suicidio.
Certo, l’assenza di lavoro è una piaga della contemporaneità che contribuisce a sbriciolare l’orizzonte di senso in cui viviamo tutti. Anche semplicemente perché, quando si è senza lavoro, è la fiducia in sé che crolla: senza lavoro ci si sente [...]; senza lavoro ci si sente inutili; senza lavoro si diventa invisibili. Michele non esita a ricordarlo, parlando di sé e dei suoi amici: “Questa generazione si vendica di un furto, il furto della felicità.” Il lavoro, insieme al diritto e all’amore, è d’altronde uno dei pilastri di quel riconoscimento di cui ci parla il filosofo tedesco Axel Honneth: un riconoscimento che è necessario a consolidare la propria identità, e ad avere consapevolezza del proprio valore intrinseco e della propria dignità. Ecco perché una società che nega il lavoro è una società che umilia. E quando si viene umiliati, è difficile continuare a battersi e ad andare avanti. Ci si sente totalmente smarriti. Talvolta si odia il mondo intero e si cerca un capro espiatorio – “Complimenti al ministro Poletti”, conclude Michele. “Lui sì che ci valorizza a noi stronzi”. Ma guai a chi dovesse permettersi forme di sciacallaggio! Non bastano certo né lo smarrimento né l’odio a spiegare un suicidio; esattamente come non basta una lettera a capire le ragioni che possono portare un uomo di trent’anni a farla finita.
Quando ci si suicida, forse c’è un senso di vuoto che invade tutto. Forse c’è l’impossibilità di immaginare che la vita possa essere altro, diversa, anche solo più clemente. C’è quel dolore acuto che copre ogni cosa e che priva della possibilità stessa di pensare che valga la pena di lottare. “Non posso passare la vita a combattere solo per sopravvivere, per avere lo spazio che sarebbe dovuto, o quello che spetta di diritto”, scrive Michele. Forse è questo il vero atto di accusa presente nella lettera e il solo insegnamento che se ne può trarre: se nessuno ci insegna che il nostro valore è indipendente da quello che facciamo, e che quindi “valiamo sempre”, anche quando non corrispondiamo alle aspettative di chi ci è accanto, allora vivere non è altro che un misero sopravvivere, mentre ci si trascina dilaniati tra un’immagine di sé idealizzata e una realtà piena di contraddizioni e di fratture.
I “no” che si ricevono nel corso dell’esistenza, cui pure fa riferimento Michele nella lettera, sono tanti: talvolta ingiustificati, talvolta proprio insopportabili. Ma sono sempre dei “no” a quello che possiamo o meno fare, e mai dei “no” a ciò che siamo. A meno di non immaginare che l’“essere” possa veramente appiattirsi sul “fare”. Credo che sia questa la lezione più importante che possiamo trarre dalla tragedia del giovane friulano; questo il vero monito e il principale atto di accusa di Michele.

http://www.michelamarzano.it/michele-suicida-udine/

Offline pan

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Re:Michele e la sua lettera d'addio.
« Risposta #30 il: 08 Feb 2017, 15:11 »
poletti come orietta berti.
Re:Michele e la sua lettera d'addio.
« Risposta #31 il: 08 Feb 2017, 15:16 »
Come sempre magnifica (IMHO):

L’ultima lettera di Michele

Michele era nato in Friuli trent’anni fa e, davanti a sé, aveva ancora tutta la vita. Ma a lui, di questa vita, ormai importava poco. Anzi, non gliene importava proprio nulla. Niente di tutti quei sogni che si possono avere quando si è ancora trentenni – e che talvolta si realizzano, talaltra vanno a infrangersi contro il muro della realtà. Niente di tutti quei progetti per i quali ognuno di noi si batte, lotta, litiga, si infiamma, piange, ride. Michele non ce la faceva più e, il 31 gennaio scorso, ha deciso di farla finita: ha scritto una lettera di addio, come spesso fa chi prima di morire vuol salutare le persone care, mescolando perdono, scuse e accuse, e si è ammazzato. Solo che in questo caso, a differenza di quasi tutte le altre volte, i genitori, la lettera, hanno deciso di renderla pubblica consegnandola al Messaggero Veneto. Per loro è un’evidenza che, a uccidere Michele, sono state l’assenza di lavoro e il precariato giovanile; per loro è chiaro che lo scritto del figlio è un atto di accusa contro il Governo.
Ma che cosa denuncia esattamente Michele? Chi sono i colpevoli di “alto tradimento”, come si legge alla fine della lettera? Per i genitori c’era solo l’assenza di lavoro che non andava nella vita del figlio. Michele era un ragazzo normalissimo, che viveva una storia normalissima in una famiglia normalissima. Anche se lui non ce la faceva proprio più ed era in cura per depressione. Il mondo sbriciolato. L’assenza di ogni speranza. Tutto e solo un peso. “Ho cercato di darmi un senso e uno scopo usando le mie risorse”, scrive il giovane. Subito prima di aggiungere: “Ma le domande non finiscono mai, e io di sentirne sono stufo”.
Non sono solo le domande, però, ciò di cui Michele era stufo. Il giovane, in realtà, era stufo di tutto: dei colloqui di lavoro che andavano male, ma anche delle storie d’amore che fallivano; delle disillusioni che viveva, ma anche della normalità della vita. Per non parlare poi di tutte quelle aspettative che sentiva pesare su di sé e cui non voleva assolutamente più corrispondere. Michele ammette che sono anni che fa a pugni con la realtà: una “realtà sbagliata”, per lui; una realtà da cancellare perché disposta a dargli solo il “minimo”: “Io non me ne faccio niente del minimo, volevo il massimo, ma il massimo non è a mia disposizione”.
Ma allora, di nuovo, che cosa denuncia esattamente Michele? Siamo certi che sia solo il precariato, e quindi il Governo, e quindi l’Italia – come pretendono i genitori e ripetono alcuni sciacalli che non provano pietà nemmeno di fronte alle tragedie e non esitano a strumentalizzare la morte di un povero trentenne, tanto tutto fa brodo quando si tratta di accusare le istituzioni e i poteri pubblici, sono loro che tradiscono, sono loro che istigano al suicidio.
Certo, l’assenza di lavoro è una piaga della contemporaneità che contribuisce a sbriciolare l’orizzonte di senso in cui viviamo tutti. Anche semplicemente perché, quando si è senza lavoro, è la fiducia in sé che crolla: senza lavoro ci si sente [...]; senza lavoro ci si sente inutili; senza lavoro si diventa invisibili. Michele non esita a ricordarlo, parlando di sé e dei suoi amici: “Questa generazione si vendica di un furto, il furto della felicità.” Il lavoro, insieme al diritto e all’amore, è d’altronde uno dei pilastri di quel riconoscimento di cui ci parla il filosofo tedesco Axel Honneth: un riconoscimento che è necessario a consolidare la propria identità, e ad avere consapevolezza del proprio valore intrinseco e della propria dignità. Ecco perché una società che nega il lavoro è una società che umilia. E quando si viene umiliati, è difficile continuare a battersi e ad andare avanti. Ci si sente totalmente smarriti. Talvolta si odia il mondo intero e si cerca un capro espiatorio – “Complimenti al ministro Poletti”, conclude Michele. “Lui sì che ci valorizza a noi stronzi”. Ma guai a chi dovesse permettersi forme di sciacallaggio! Non bastano certo né lo smarrimento né l’odio a spiegare un suicidio; esattamente come non basta una lettera a capire le ragioni che possono portare un uomo di trent’anni a farla finita.
Quando ci si suicida, forse c’è un senso di vuoto che invade tutto. Forse c’è l’impossibilità di immaginare che la vita possa essere altro, diversa, anche solo più clemente. C’è quel dolore acuto che copre ogni cosa e che priva della possibilità stessa di pensare che valga la pena di lottare. “Non posso passare la vita a combattere solo per sopravvivere, per avere lo spazio che sarebbe dovuto, o quello che spetta di diritto”, scrive Michele. Forse è questo il vero atto di accusa presente nella lettera e il solo insegnamento che se ne può trarre: se nessuno ci insegna che il nostro valore è indipendente da quello che facciamo, e che quindi “valiamo sempre”, anche quando non corrispondiamo alle aspettative di chi ci è accanto, allora vivere non è altro che un misero sopravvivere, mentre ci si trascina dilaniati tra un’immagine di sé idealizzata e una realtà piena di contraddizioni e di fratture.
I “no” che si ricevono nel corso dell’esistenza, cui pure fa riferimento Michele nella lettera, sono tanti: talvolta ingiustificati, talvolta proprio insopportabili. Ma sono sempre dei “no” a quello che possiamo o meno fare, e mai dei “no” a ciò che siamo. A meno di non immaginare che l’“essere” possa veramente appiattirsi sul “fare”. Credo che sia questa la lezione più importante che possiamo trarre dalla tragedia del giovane friulano; questo il vero monito e il principale atto di accusa di Michele.

http://www.michelamarzano.it/michele-suicida-udine/

Na genia questa.
A parte la difesa d'ufficio del ministro poletti il grande insight
di quest'articolo sarebbe che "l'essere non deve appiattirsi sul fare"?
E graziarca'.
Un minimo di approfondimento del perchè questo succede, di come funzionano le dinamiche sociali in rapporto alle condizioni oggettive determinate dal mercato del lavoro e dalla in.f.ame politica che lo accompagna in Italia?
Che tristezza gli (pseudo) intellettuali italiani

Offline Buckley

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Re:Michele e la sua lettera d'addio.
« Risposta #32 il: 08 Feb 2017, 15:20 »
Invece secondo me aveva ragione Deleuze quando individuava nella psicoanalisi
uno strumento di normalizzazione dei desideri, una castrazione degli impulsi desideranti, che molto spesso sono per l'appunto "politici".
Non sono d'accordo su questo ma posso parlare solo per esperienza personale senza poter contare su basi teoriche. Ho avuto intorno alla trentina il mio percorso psicoanalitico e non ho mai avuto il sentore della normalizzazione dei miei desideri. La psicanalisi e' grande nel darti gli strumenti per comprendere da quale base parti e quant'e' la strada da fare, ma i miei desideri, col crescere della mia consapevolezza, sono diventati di piu' e piu' grandi, pur con la comprensione che non tutti avrebbero potuto divenire realta'. Poi se mi chiedi della capacita' di guarire, non saprei, so solo che nuovi non si torna mai. Io non riesco a scindere il personale dal politico, non so quanto il politico possa essere libero dal personale. Io credo molto poco nel libero arbitrio, molte delle nostre "libere scelte" sono pre-determinate da genetica e psicologia.
Questa lettera mi tocca davvero in profondita', avrei potuto scriverla io qualche anno fa anche se al suicidio diretto non avrei mai potuto giungere. In fondo anche il chiudersi in camera e isolarsi e' una forma di suicidio. Massimo rispetto per Michele e la sua scelta, ma non ho parole da opporre alla sua decisione.

Offline laziAle82

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11715
Re:Michele e la sua lettera d'addio.
« Risposta #33 il: 08 Feb 2017, 15:53 »
Na genia questa.
A parte la difesa d'ufficio del ministro poletti il grande insight
di quest'articolo sarebbe che "l'essere non deve appiattirsi sul fare"?
E graziarca'.
Un minimo di approfondimento del perchè questo succede, di come funzionano le dinamiche sociali in rapporto alle condizioni oggettive determinate dal mercato del lavoro e dalla in.f.ame politica che lo accompagna in Italia?
Che tristezza gli (pseudo) intellettuali italiani

A me la sola tristezza sembra essere tu che ci leggi una difesa di Poletti.
Re:Michele e la sua lettera d'addio.
« Risposta #34 il: 08 Feb 2017, 15:57 »
Non sono d'accordo su questo ma posso parlare solo per esperienza personale senza poter contare su basi teoriche. Ho avuto intorno alla trentina il mio percorso psicoanalitico e non ho mai avuto il sentore della normalizzazione dei miei desideri. La psicanalisi e' grande nel darti gli strumenti per comprendere da quale base parti e quant'e' la strada da fare, ma i miei desideri, col crescere della mia consapevolezza, sono diventati di piu' e piu' grandi, pur con la comprensione che non tutti avrebbero potuto divenire realta'. Poi se mi chiedi della capacita' di guarire, non saprei, so solo che nuovi non si torna mai. Io non riesco a scindere il personale dal politico, non so quanto il politico possa essere libero dal personale. Io credo molto poco nel libero arbitrio, molte delle nostre "libere scelte" sono pre-determinate da genetica e psicologia.
Questa lettera mi tocca davvero in profondita', avrei potuto scriverla io qualche anno fa anche se al suicidio diretto non avrei mai potuto giungere. In fondo anche il chiudersi in camera e isolarsi e' una forma di suicidio. Massimo rispetto per Michele e la sua scelta, ma non ho parole da opporre alla sua decisione.

Anche io ho fatto analisi tempo fa ed è stata positiva per me, ebbi la fortuna di trovare una persona molto aperta con cui ho avuto modo di fare discussioni profonde e avere uno scambio importante ( per esempio mi ha fatto conoscere Lacan ).
La cosa che dicevo di Deleuze in risposta a Carib era che a mio avviso ridurre le infelicita' anche profonde, anche quello che possono portare a un atto come il suicidio a "malattia" come inadeguatezza è sbagliato.
E molte volte la psichiatria e la psicoterapia operano questo processo giudicante verso il desiderio (perversione polimorfa) e cercano di ricondurre il sofferente a "rientrare" nei binari socialmente accettati.
Delle volte le pulsioni , sopratutto quando deviano dalla norma, devono invece essere libere di esplicitarsi nelle loro potenzialità rivoluzionarie.
Fare si che pulsioni vitali non virino in pulsioni di morte da sedare in qualche modo.
Re:Michele e la sua lettera d'addio.
« Risposta #35 il: 08 Feb 2017, 16:16 »
Massima comprensione e compassione, massimo rispetto per il dolore.
Ma questa roba è folle. E ritengo sbagliato rendere pubblici questi dolori e deliri privati, soprattutto con una motivazione di fondo "politica" e non psicologica. Sociale e non personale.
Non mi permetto di giudicare quindi la parte personale del messaggio, di ipotizzare se chi l'ha scritto e ha compiuto quel gesto sia stato realmente lucido o in stato di depressione. Rientra nell'ambito degli affetti personali. Non giudico neanche la famiglia, che per dare un senso al proprio dolore usa questa lettera come vendetta verso la società che ritene colpevole per la perdita del figlio.
Però se le motivazioni che adduce per il suo gesto estremo potessero realmente giustificare questo giudizio apocalittico sulla realtà e sul futuro, l'umanità si sarebbe dovuta estinguere da millenni.
La stragrande maggioranza della popolazione mondiale vive ed ha vissuto "cercando di sopravvivere", con infiniti meno diritti rispetto ad un trentenne precario del nordest italiano nel 2017. Vive a rischio della propria vita, senza diritti sulla propria salute, sulla propria istruzione, sulla propria libertà, sulla propria sicurezza.
Allora il tema sono le aspettative, personali e sociali, il modello di vita unico proposto, piuttosto che "il precariato" e ciò che "dice Poletti". Un modello imposto di successo, benessere, lusso basato soprattutto sull'insoddisfazione. Citando la lettera "Io non me ne faccio niente del minimo, volevo il massimo, ma il massimo non è a mia disposizione."
Ma la vita può e deve offrire ben altri stimoli, ben altre soddisfazioni, ben altre risposte.
Si può e si deve lottare, a livello sociale, politico e personale, contro il modello di società imposto e non per raggiungerne i vertici. Si può e si deve puntare ad una società più giusta, più equa, più inclusiva, per se stessi e per gli altri, e non per far parte dell'1%.
Si può cercare la felicità in mille momenti, affetti, personali non legati direttamente al benessere consumistico. La gioia è dietro ogni angolo, anche se spesso fugace.
Il precariato non uccide. Uccide l'insoddisfazione, uccide il dolore, uccide la paura.

condivido pienamente. è vergognoso come l'abbiano pubblicata, come la stiano sfruttando "politicamente".
uno sfogo che esprime un malessere intimo usato come propaganda sociale.

vergogna.

Online FatDanny

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37176
Re:Michele e la sua lettera d'addio.
« Risposta #36 il: 08 Feb 2017, 16:51 »
Che l'essere non si appiattisce sul fare è in grado di dirlo solo chi ha la possibilità di fare tanto e non si rende conto.

Per me il problema di quella lettera non è il voler giustificare poletti, ma in parte quello che facevo notare a pentiux.
Schiacciare il malessere causato da questa società a questione di mero consumo o possibilità lavorativa è guardare un decimo del discorso. È non comprendere la pervasività della parte nel tutto.
È non capire come in un economia di mercato dove tutto diviene merce (e non è uno slogan, si vedano i social network o i siti di appuntamento) quell'aspetto ha ricadute su molti altri. E sono quei molti altri a determinare uno stato mentale.

Ci metto un pezzettino di me: è soprattutto l'idea, che qui dentro la gran parte dei netter mi ha ribadito a più riprese per altro, che non ci sia alternativa a questo.
Che è illusorio pensare di cambiare radicalmente questa realtà.
Questo uccide. Perché questa affermazione può permettersela chi si ritiene minimamente soddisfatto di quel che la realtà gli offre. Gli altri no. Io no.

E non ho alcun problema ad ammettere candidamente che a me la politica mi ha letteralmente tenuto in vita.
Se non credessi fermamente ancora oggi che un rovesciamento radicale di questa merda sia assolutamente possibile a differenza di Michele, non avrei ragione per non terminare la continua tensione, il continuo rancore, la continua guerra con una tanto agognata pace. Non ci sarebbe disagio, timore o frustrazione in questa scelta, ma un'inimmaginabile serenità. Come la stanza buia e silenziosa dopo la giornata peggiore che possiate immaginarvi.

Non trovo nel dato, se considerato immutabile, alcun motivo che possa minimamente controbilanciare tutta la merda che vedo intorno.
Nessun affetto, nessuna esperienza, nessuna piccola gioia effimera. Semplicemente niente.
Se sono qui è perché ancora credo che la rivoluzione è possibile.
Se Michele non aveva dio, non aveva rivoluzione e nemmeno fiducia in questo mondo terreno non capisco proprio che cosa pretendiate da lui.
Re:Michele e la sua lettera d'addio.
« Risposta #37 il: 08 Feb 2017, 17:50 »
Che l'essere non si appiattisce sul fare è in grado di dirlo solo chi ha la possibilità di fare tanto e non si rende conto.

Schiacciare il malessere causato da questa società a questione di mero consumo o possibilità lavorativa è guardare un decimo del discorso. È non comprendere la pervasività della parte nel tutto.
È non capire come in un economia di mercato dove tutto diviene merce (e non è uno slogan, si vedano i social network o i siti di appuntamento) quell'aspetto ha ricadute su molti altri. E sono quei molti altri a determinare uno stato mentale.


Grazie Fat che riesci a dire quello che penso in una forma decente

Offline Omar65

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7064
Re:Michele e la sua lettera d'addio.
« Risposta #38 il: 08 Feb 2017, 20:03 »
Da cittadino di una società “malata” di consumismo mi ritrovo perfettamente nell'analisi che ne fanno FD e pentiux. Ma da cittadino ed essere umano mi chiedo se in che modo si possano prevenire crisi senza appello come quella che ha portato questo ragazzo al suicidio. Se posso esprimere anche io un giudizio, questo ricade sull'errore che troppo spesso si compie nel confondere il pretesto con la causa che c'è dietro un suicidio. In quelle parole fredde e lucide IMHO è descritto in maniera precisisa il vuoto affettivo vissuto da questo ragazzo. La malattia è questo vuoto. Su questo vuoto va fatta la diagnosi (che non è un giudizio) per avviare una cura con il fine della guarigione. Nel caso di Udine purtroppo l'epilogo rende evidente che si trattava di una patologia conclamata, che quindi ha avuto un lungo decorso, che sicuramente - come sempre accade - ha presentato negli anni numerosissimi sintomi che progressivamente si sono acuiti fino a sfociare in psicosi. Una società che non mette in condizione il Servizio sanitario nazionale di intercettare in tempo certi sintomi per avviare una psicoterapia efficace, è una società “malata”. Una società che non mette ai disposizione dei familiari di chi soffre gli strumenti “culturali” necessari per cogliere il disagio, è una società “malata”. Una società che lascia dei genitori da soli contro il disagio dei loro figli, è una società "malata". Di una malattia terminale.
Questo, IMHO, è ciò che quel povero ragazzo ha denunciato veramente. Con il suicidio, più che con la lettera.


Re:Michele e la sua lettera d'addio.
« Risposta #39 il: 08 Feb 2017, 20:52 »
Grazie Fat che riesci a dire quello che penso in una forma decente
100%
 

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