1966 - Quadro secondo, parte terza
Paolo Rossi
Aprile - maggio
Continuo con la presentazione di testimonianze più prossime allo svolgersi degli eventi. Su L'Unità, a vent'anni dall'assassinio di Paolo Rossi, Tullio De Mauro, uno dei docenti occupanti la facoltà di Lettere al fianco degli studenti quello stesso 27 aprile, sgomberato con la forza con gli altri occupanti dalla polizia, scrive un articolo sul valore politico e civile dell'occupazione.
Comincio però da un estratto di un altro articolo, che è sempre nella stessa pagina, firmato da Elisabetta Bonucci:
" [...] Nel giorni seguenti l'occupazione dell'ateneo divenne un cantiere di iniziative concrete attorno a due obiettivi precisi: primo, ovvio ma non scontato, le dimissioni del decennale rettore; secondo, la costruzione di un nuovo modo di governare l'università, la richiesta di una partecipazione più ampia e
democratica alla direzione dell'ateneo, anzi degli atenei. Il significato della lotta andava oltre, metteva in discussione tutto il modo di gestire la vita politica nazionale. All'entusiasmo e alla decisione faceva riscontro una capacità di organizzarsi ordinatamente e concretamente che non aveva alcun riscontro con il passato. Le assemblee nelle facoltà occupate si susseguivano con un calendario niente affatto tumultuoso che prevedeva la vigilanza, l contatti con l'esterno, la stessa salute fisica: rimase famoso un «menù degli occupanti» studiato apposta dagli studenti di dietologia. I collegamenti con le famiglie erano puntuali e rassicuranti: allora, per molti non era uno scherzo «dormire fuori casa». Si trovava il tempo per tutto: per ricevere le delegazioni esterne e per mandarne altre di collegamento con le sedi del partiti, con il consiglio comunale, con il Parlamento, con le altre sedi universitarie che avevano proclamato l'occupazione: a Milano, a Napoli, a Firenze, a Pisa. Il 29 pomeriggio si tenne a Lettere un'assemblea che parve storica: il momento più alto e commosso fu quando Orietta Rossi, la sorella di Paolo, entrò a parteciparvi, per portare il saluto, la solidarietà della sua famiglia. «Io e mia moglie Tina — mi aveva detto nella loro casa Il padre Enzo — abbiamo combattuto e militato nella Resistenza e questa, a venti anni di distanza, doveva essere la nostra azione più tremenda e coraggiosa..,».
Walter Binni disse nella sua orazione (almeno ho trovato uno stralcio. E' pur sempre qualcosa. Ndr.): «Paolo è morto perché troppo grande è la sproporzione, la tragica sproporzione, nel nostro paese fra la maturazione vista di ideali democratici e una prassi di avversione, o quanto meno di diffidenza a questa... la lotta per l'Università non è che una parte della nostra lotta per il rinnovamento del nostro paese». Proprio molti universitari mancavano al funerali di Paolo Rossi: erano restati nelle facoltà occupate perché, nonostante tutto, anche In quel momento cosi alto, era possibile un colpo di coda, una Irresponsabile decisione che, con la sepoltura di Paolo, seppellisse ogni altra cosa nata e cresciuta in quel giorni. Chi sapeva come sarebbe finita? Tanto è vero che Papi resisteva. Aveva perfino mandato una corona come rettore dell'Università ai funerali di Paolo, vittima, come aveva dichiarato, per lui di un «malaugurato Incidente». Non resisteva certo per lui solo, ma per tutto quello che rappresentava. Strano a dirsi, fu necessario per molti dissociarsi, fu necessario dire, scrivere, nero su bianco, che non si era per il rettore: con una «lettera aperta al presidente della Repubblica e alla Nazione» decine e decine di docenti (i primi firmatari erano più di cinquanta, tutti professori di ruolo e direttori di istituto della Sapienza) chiesero in modo esplicito di applicare la Costituzione antifascista, di ripristinare l'ordine democratico nelle università, di sciogliere le bande fasciste, di far rispettare le leggi e l'autonomia universitaria. Era passato un primo maggio che per la prima volta aveva visto uniti lavoratori e studenti, anche nel comizi, anche nelle piazze oltre che nel recinto dell'università romana. Tutti gli atenei avevano proclamato uno sciopero di due giorni. E Papi continuava a restare. Fu solo il 2 maggio mattina che il rettore si decise finalmente a convocare il suo senato accademico e a dimettersi sollecitando la solidarietà dei suoi «senatori». Fu solo il 3 maggio che il ministro Gui le accettò. E fu in quei giorni che, ancora, tenacemente, i fascisti (e c'era Almirante pure, per l'occasione) tentarono un'altra squallida, battuta provocazione all'università. Che dette il segno, però, che non solo di Papi si trattava, che in ballo erano conquiste ben oltre le dimissioni d'un rettore, per quanto significative. E Infatti non fu aria di smobilitare: un rettore se n'era andato, tutto un passato doveva andarsene con lui, non subito, non domani, ma occorreva mettere almeno le basi per i mutamenti profondi, per la riforma del più alto Istituto scolastico, per la continuazione di quel dialogo appena e ad altissimo prezzo cominciato. L'occupazione dell'ateneo romano, la mobilitazione di tutte le università del paese continuò li tempo per mettere a punto altri risultati oltre la cacciata di Papi: le garanzie di poter continuare la lotta In un clima di legalità democratica, gli strumenti per esercitare questo diritto. Dopo una grande assemblea nell'Aula Magna della Sapienza gli universitari decisero. a stragrande maggioranza, che all'emergenza dell'occupazione doveva subentrare l'impegno di ogni giorno. «Usciamo come occupanti da queste aule, ci torneremo domani a Insegnare. a studiare, a lavorare. Domani come stasera, come ieri, per proteggere e portare avanti tutto ciò che In questi giorni è nato». Anche la fine dell'occupazione fu una prova di forza e di maturità: fuori del cancelli della città universitaria, quella sera del 3 maggio 1966, c'era una gran folla ad aspettare e festeggiare studenti e professori. Nessuno allora lo sapeva, ma il sessantotto, il più famoso e scintillante sessantotto, era già cominciato."
Elisabetta Bonucci
"Della occupazione del 1966, della occupazione di Paolo Rossi, della occupazione 'socialdemocratica' (come una volta l'ha chiamata Michele Rago) non è possibile parlare ancora In chiave storica. La
nostra storiografia contemporaneistlca, diversamente da quella straniera, si ferma a Giollttl (Giovanni) e solo i più audaci, come Renzo De Felice o Paolo Spriano, si spingono verso gli anni '40 di questo secolo. Così di quel fatti del 1966 possiamo e dobbiamo parlare ancora oggi soltanto per testimonianze e come fatti di cronaca. Peccato. Peccato, perché ogni anno, quando i pioppi della caserma aeronautica spelano, tra la metà di aprile e i primi di maggio, e i pispoli transitano rapidi nell'aria del piazzale dell'Università, ogni anno, tutti gli anni, qualcuno di noi ritorna col pensiero a quel fatti e tra sé e sé ripensa a Paolo Rossi, al ragazzo socialista assassinato dal fascisti allora, e a quel che successe poi. E più d'uno tra noi non ricorda soltanto persone singole, singoli fatti, tanti, ma un moto più vasto che
andò oltre l'Università di Roma e non di Roma, che scosse la coscienza del paese, o venne dal profondo di quella, e pose domande che non sempre, non tutte hanno avuto poi risposta. Nonostante l'aspetto di rivolta anarchica che ebbe (ma la stessa faccia avevano avuto i moti del '60 che cacciarono Tambroni), i sette giorni di occupazione dell'Università di Roma furono come dire ? - molto istituzionali, molto (Rago In un certo senso aveva ragione) riformisti. Proverò qui a dirne il senso (quel che oggi mi
pare il loro senso) formulando in parole le parole allora Inespresse che furono poste. La prima domanda era rivolta alla classe politica, ma anzitutto, non c'è dubbio, al grandi partiti di sinistra, al
comunista In primo luogo. Potrebbe suonare così: 'Voi credete ancora che la rivolta del Sessanta contro Tambroni sia stato un caso. O, peggio, una serie di sommosse del teppisti. Errore. Questo
paese e diventato davvero democratico, non solo nella retorica resistenziale del discorsi da 2giugno. Un governo o un golpe fascista qui non sono più possibili. Noi ve lo dimostriamo. Noi diciamo che i fascisti sono ridotti a poche bande pericolose per i singoli ma non per le Istituzioni. Con i vostri timori che sia possibile un golpe fascista in Italia voi commettete anzitutto un errore politico. Lo capite o no?:
Nessuno ci rispose. Anzi, Pietro Ingrao, prendendosi col grande coraggio morale e intellettuale che ha la responsabilità di farci uscire dall'Università ancora occupata, agitò i rischi del dilagare di un'azione di forza della polizia e del carabinieri, prima contro dì noi. poi contro tutto il paese. Cedemmo. E
facemmo molto male. L'ipotesi greca e cilena ha continuato da allora in poi a tarpare le ali al movimento progressivo italiano. Una seconda domanda era rivolta al giornalisti e all'informazione. Più o meno diceva: *Con le loro false opinioni sul pericolo fascista, i nostri leader politici non commettono solo un errore. Autorizzano I fascisti, ridotti a gruppetti [...], a tentare di dare segni e prove della loro esistenza. A trasformarsi In bande criminali pericolose non per lo Stato ma per le persone. Volete decidervi a venire a vederli? Volete decidervi a fare giornali non di commenti ma di notizie? Se lo faceste, le continue e sanguinose aggressioni fasciste all'Università di Roma dalla fine degli anni '50 ad oggi non le liquidereste ogni giorno, presentandole come 'zuffa tra opposti gruppi estremisti: I fascisti picchiano loro, primi e soli. Organizzati In bande. Noi, noi tutti, liberali, cattolici, socialisti, comunisti, le prendiamo di santa ragione grazie alla disorganizzazione alla quale vogliamo restare fedeli. Voi
date un quadro falso. Voi accettate l comunicati del rettore dell'Università di Roma, che presenta appunto le aggressioni fasciste in questo modo, come fossero oro colato. Voi siete del pessimi giornalisti: vi era implicita nella domanda la fiducia nella possibilità che un buon giornalismo potesse esistere nel nostro Paese. Altre domande erano, soprattutto, mi pare, la domanda 'socialdemocratica»
di una risposta legislativa al bisogni di cultura universitaria e di rinnovamene della scuola. Nelle assemblee del sette giorni questo fu un tema continuo. E il motivo per cui molti di noi riluttavano a seguire l'invito delle forze politiche, l'invito del "partito comunista, del suo leader in quel momento di
maggior prestigio, a abbandonare le aule dell'università, era un motivo non già di 'rivolta e secessione anarchica e estremista, ma la speranza che il perdurare dell'occupazione potesse scuotere il Parlamento e portarlo a varare quella legge di riforma universitaria che allora già aspettavamo e che abbiamo aspettato inutilmente nel vent'anni successivi. Questo a me pare il senso di alcune delle domande allora poste, domande delle quali abbiamo inutilmente cercato di rispondere una risposta
soddisfacente negli anni successivi. [...], per molti di noi, non so dire per quanti, la vita cambiò, per molti di noi maturarono in quel sette giorni ragioni e motivazioni di scelte che hanno guidato e guidano la nostra esistenza."
Tullio De Mauro
Fine parte terza
P.S. Tutto ciò che attiene le indagini e il caso giudiziario sull'omicidio di Paolo Rossi, sarà trattato nelle parti generali.