Scusate la lunghezza
Quanto al determinismo, certo in ogni autore ci sono contraddizioni ed evoluzioni, pero' Marx scrive in Per la critica dell'economia politica che il materialismo storico e' una forma di determinismo tecnologico e che l'ascesa e la caduta dei vari regimi economici dipende dalla loro tendenza a promuovere o meno i cambiamenti tecnologici. Lo so, in altri scritti di Marx ci saranno passaggi che vanno in altre direzioni. Ho sempre considerato Marx molto influenzato da Hegel e con una visione teleologica della storia.
Se ritieni, come ti ho chiesto in un altro post, vorrei che mi spiegassi come si attua concretamente il processo del passaggio dal capitalismo alla socializzazione dei mezzi di produzione, dando la proprieta' dei mezzi di produzione a chi ci lavora
Parto da qui e provo a rispondere ad alcuni spunti.
1) Prima curiosità estremamente indicativa: Marx nonostante abbia scritto vagonate di roba non utilizza MAI (oh, davero, MAI) il termine "materialismo storico". Difficile quindi che abbia scritto cos'è una categoria da lui mai utilizzata.
E' indicativa questa cosa perché mostra quanto poco si conosca realmente questo autore e quanto in realtà si conoscano di lui le interpretazioni successive maggioritarie. Responsabilità non solo del capitalismo cattivo eh, intendiamoci, anche di Mosca e dei vari partiti comunisti occidentali i quali, loro si, assunsero una concezione estremamente deterministica volta a propagandare il comunismo come un qualcosa di inevitabile in futuro. Ma d'altronde il capitalismo fece e fa esattamente la stessa cosa, la propaganda funziona così e non solo sotto i regimi socialisti.
Il blanquismo era più efficace del marxismo ai fini di propaganda e di mantenimento del potere.
1bis) Marx era quindi tutt'altro che determinista, pur essendoci senza dubbio caduto in alcuni passaggi, soprattutto rispetto alle materie che conosceva meno e più indirettamente (vedi analisi regimi asiatici e loro evoluzione).
Marx fin dalle "
tesi su feuerbach" rompe fortemente non solo con Hegel, ma anche con gli hegeliani di sinistra (di cui feuerbach era esponente).
C'è una tesi in particolare azzeccata proprio con quanto discutiamo:
i filosofi hanno pensato il mondo, ora si tratta di trasformarlo. In queste poche parole c'è una fortissima critica a tutta la scuola hegeliana di sinistra, per chi la conosce.
Non c'è una direzione della storia predeterminata o determinata dal Pensiero. L'unica determinazione è data dall'azione politica e quindi è il risultato di un conflitto, non un qualcosa di già scritto.
Per questo quando qualcuno dice che Fusaro è un marxista ne muore uno in giro per il mondo (sono molto preoccupato infatti).
2) Come attuare concretamente questa trasformazione?
Rispondo così: sarebbe stato possibile il capitalismo senza la diffusione della morale protestante/calvinista? No. senza le società per azioni che permisero la nascita delle compagnie delle indie? No. senza lo sviluppo degli stati nazione? No. senza i conflitti che portarono la borghesia a scontrarsi, anche violentemente, con la nobiltà? No.
La storia è SEMPRE una combinazione di piani intrecciati che si sviluppano. Strutture e sovrastrutture, in combinato. Come è valso per il capitalismo non può che valere per il socialismo.
Non tocca essere tutti più buoni ma che si sviluppino piani coerenti (culturalmente, politicamente, socialmente) a questo tipo di trasformazione.
Se io mi mettessi qui a raccontarvi il modellino economico di trasformazione sarei poco serio. come dice Sobolev sarebbe una masturbazione intellettuale.
La rivoluzione è quindi, per rispondere ad Undodicesimo, non un atto militare, ma l'istaurazione dal basso di nuovi rapporti sociali, politici ed economici.
Sono gli operai russi che prendono il controllo delle fabbriche ad essere rivoluzione, non il palazzo d'inverno che è solo simbolo di quanto avveniva fuori (e che un golpe non sarebbe mai riuscito a produrre).
Non è violenta di per sé, è maggioritaria per necessità, ma sarebbe sciocco non vedere che implica una reazione violenta del vecchio potere e dunque uno scontro tra vecchio e nuovo.
Chiudo con Carib perché come in apertura con Vincelor mi piace molto raccontare un Marx purtroppo inedito rispetto a come viene raccontato e studiato.
Marx mi sembra molto più vicino a un "fare qualcosa per e con gli altri" che a un "essere nel rapporto con gli altri". Questo non significa affatto che la sua teoria sia fallimentare - gli esseri umani sono tutti uguali, vanno soddisfatti i bisogni di tutti: questo è il minimo sindacale - ma semplicemente che dopo un paio di secoli potrebbe evolversi.
Marx è il pensatore per eccellenza del rapporto. La realtà mostrata da marx è una realtà come rapporto. Tutte le categorie marxiste sono non concetti, ma rapporti, cosa dovuta senz'altro anche alla sua origine ebraica (dialettica ebraica vs regime di Verità cristiana).
La classe, tanto per fare un esempio collettivo, non dipende dal salario, dalle abitudini, dal lavoro, come invece molti hanno banalizzato in seguito, ma dal reciproco rapporto sociale che instaura.
Può sembrare un'artificio retorico, ma le implicazioni che ebbe allora questo diverso modo di pensare furono immense e non del tutto capite (ancora oggi).
Altro esempio: tu dici che marx sosteneva "tutti gli uomini sono uguali, vanno soddisfatti i bisogni di tutti". E invece NO! Ancora una volta questo è Blanqui (rendetevi/rendiamoci conto, perché niente di tutto questo è casuale, ma è frutto di una enorme e affascinante sostituzione ideologica).
Nei
manoscritti economici e filosofici Marx polemizza con lui e Babeuf dicendo che livellare tutti gli uomini sul livello dei lavoratori riconoscendogli semplicemente dei diritti non avrebbe abolito la condizione degli operai, ma l'avrebbe estesa a tutti! (guarda caso, ancora una volta, quanto accaduto nel socialismo reale, molto simile alla critica di Churchill).
Per farvi capire l'ENORME distanza tra il marx conosciuto (ossia blanqui con qualche spruzzo di marx) e il marx reale vi lascio con un passaggio preso proprio dai manoscritti in cui marx spiega cosa dovrebbe per lui cambiare dal lavoro salariato a quello socializzato:
"ciascuno di noi si affermerebbe doppiamente nella sua produzione, per sé stesso e per l’altro! 1) Nella mia produzione realizzerei la mia identità, la mia particolarità; lavorando proverei il godimento di una manifestazione individuale della mia vita, e, nella contemplazione dell’oggetto, avrei la gioia individuale di riconoscere la mia personalità come potere reale, concretamente percepibile e al di fuori di ogni dubbio. 2) Nel tuo godimento o nel tuo impiego del mio prodotto, avrei la gioia spirituale immediata di soddisfare attraverso il mio lavoro un bisogno umano, di realizzare la natura umana e di fornire al bisogno di un altro l’oggetto della sua necessità. 3) Avrei consapevolezza di servire da mediatore tra te ed il genere umano, di essere riconosciuto e sentito da te come un complemento al tuo proprio essere e come una parte necessaria di te stesso; di essere accettato nel tuo spirito come nel tuo amore. 4) Avrei, nelle mie manifestazioni individuali, la gioia di creare la manifestazione della tua vita, cioè di realizzare e di affermare nella mia attività individuale la mia vera natura, il mio essere socievole umano. Le nostre produzioni sarebbero altrettanti specchi dove i nostri esseri risplenderebbero uno di fronte all’altro. (...) Il mio lavoro sarebbe una manifestazione libera della vita, un godimento della vita"
ditemi voi queste parole come si coniugano, anche lontanamente, anche solo per sbaglio, anche solo come distorsione, con un leviatano statale che decide tutto.