Acerbi e la vittoria sul tumore
«Ho scoperto davvero chi sono»
Il calciatore è testimonial Airc: «Ho fiducia negli altri. E ogni sera prego»
Ha creduto di essere un invincibile, un supereroe. Verrebbe da dirgli: ma dai! Poi però ricorda e parla di quando era un ventenne pieno di energie, un pezzo d’uomo alto un metro e novanta che giocava a calcio in serie A. E che un giorno fu acquistato dal Milan. Invincibile. «Così mi sentivo».
Dal punto di vista di Francesco Acerbi, invincibile significava avere licenza di «far casini», dormire poco la notte, andare in giro per locali e bere. «Sì, tanto alcol. Anche se poi sul campo andavo lo stesso forte. Il fisico mi ha aiutato, la fortuna è stata dalla mia parte». Fino al giorno in cui la vita s’è ripresa qualcosa. E gli ha inviato un messaggio. «Avevo da poco finito la mia esperienza al Milan, nel 2013. Una normale visita di controllo da parte dei medici. Hanno trovato un nodulo, sono stato operato immediatamente». Un tumore a un testicolo. Ma non è stato proprio quello il momento in cui Acerbi ha messo da parte l’idea che aveva di se stesso. «Che non fossi un invincibile l’avevo capito già al Milan. Se non fai una vita da atleta a quei livelli si paga il conto». Il tumore diagnosticato subito dopo è stato il colpo. Che ha avvertito fin nel profondo dell’anima. Che ha cambiato gerarchie di valori. Lo ha riavvicinato alla famiglia e al calcio. Gli ha fatto rinascere la passione.
«Può sembrare strano ma che nella vita volessi fare davvero il calciatore l’ho capito dopo la malattia». Come se il sogno del bambino che aveva già realizzato si fosse materializzato all’uscita dall’ospedale. «Per molti anni ho dato tutto grazie alle doti che mi ha regalato la natura. Giocavo ma forse la passione l’avevo perduta. Mi è ritornata». Passione che ora mette a disposizione della sua squadra, la Lazio, e appena può anche dell’Airc, l’Associazione italiana per la ricerca sul cancro: «Sono molto felice di essere un loro testimonial». Una pausa, il fiato che rallenta, riprede a raccontare. «Mia mamma, la migliore delle madri, mi coccolava eccessivamente, mi faceva andare in bestia. Avevo bisogno di qualcuno che mi invitasse a vedere la tv, a fare la spesa. Insomma, che non mi facesse sentire malato. Mio fratello è stato fondamentale». I dottori? «Mi avevano detto che dopo l’operazione tutto si sarebbe risolto. Non fu così. Dopo altri controlli mi dissero che con il tumore non si sa mai, si può espandere. Meglio fare la chemio. La feci». Ma non fu un periodo tremendo. «Ero preoccupato per i miei familiari, non per me stesso. Facevo una vita normale: corsa, cyclette e divertimento la sera. Ho pensato: così si sconfigge il male. Ero sicuro di guarire». Una visione pratica della vita che ha integrato con una più spirituale. «Prego due volte al giorno. Al mattino e alla sera. Però non è che sia diventato santo. Di casini ne combino ancora. Ma rispetto a prima ora so chi sono. Distinguo il bene dal male. So di chi posso fidarmi. E ho allontanato le persone che considero negative».
https://www.corriere.it/cronache/19_gennaio_25/acerbi-vittoria-tumore-f34e4384-20db-11e9-926b-daa18cae285e.shtml