Gascoigne, un film ne celebra genio, dipendenze. E ossessioni: “Come quella per la striscia di Gaza...”
Esce un documentario su classe, cadute e risalite del grande giocatore inglese
Che ora sta bene: «Non tocco più una goccia d’alcool, spero i tabloid mi lascino in pace»
Una vita che nemmeno il miglior sceneggiatore avrebbe potuto immaginare, dove le cadute sono tante e le risalite sono difficilissime: ma ridurre la parabola romanzesca di Paul Gascoigne, grandissimo calciatore, fragilissimo uomo, a mero maledettismo sarebbe ingeneroso e fumettistico. “È stato il più forte di tutti a vestire la maglia della nazionale inglese”, l’endorsement, il riconoscimento a posteriori non arriva da uno qualunque, ma da Wayne Rooney che dei bianchi è sicuramente l’elemento più rappresentativo dell’ultimo decennio.
Un buon equilibrio tra stordimenti e delizie
E in buon equilibrio tra gli stordimenti del privato e le delizie sul campo è appunto «Gascoigne», documentario inevitabile perché inevitabile era prima o poi trasportare una storia come la sua sul grande schermo: lo stesso Gazza (come lo chiamavano, e lo chiamano, in patria) l’ha presentato a Londra, contornato dai suoi cari. Il film parte dalla sua infanzia a Gateshead, classico sobborgo operaio, mattoni rossi e miseria, dall’altra parte del Tyne, il fiume di Newcastle, dove il piccolo Paul gioca con una pallina da tennis. Per attraversarlo poi, il fiume, e diventare coi bianconeri una star assoluta: quindi scorrono le magie ( e le lacrime) di Italia’90 e i primi deliri alcolici con l’improbabile amico Jimmy Cinquepance, l’avventura laziale, mai decollata davvero, la rinascita coi Rangers e a Euro 96, e poi la fine, le dipendenze, le botte, le ossessioni. Su e giù vertiginosamente, mentre Mourinho, Lineker e appunto, Rooney, ne celebrano genio e fragilità.
«Ora sto bene»
«Ora sto bene» dice un 48enne Gazza «Sono in un buon momento della mia vita, non tocco più una goccia d’alcool, anche se ogni tanto le bugie della stampa mi fanno ancora male». Già, l’idiosincrasia verso i tabloid, sempre a caccia di scoop sulla sua pelle, è stata una croce amara nella tormentata vicenda umana dell’inglese. Un’idiosincrasia tale che gli ingenerò manie di persecuzione, il telefono sotto controllo, vedeva spie dappertutto, come racconta. O addirittura «quando nei notiziari parlavano della striscia di Gaza pensavo si riferissero a me e davo di matto». Gazza è contento del documentario proprio per la sua ambivalenza: «Ho detto tutto in questo film perché la mia vita non è stata rosea. Ho dovuto farci i conti fin da ragazzino, tra infortuni, rehab, tossicodipendenze. Niente di cui vantarmi, ma la gente deve sapere che stavo male perché avevo dei problemi e delle malattie. Ma il mio lato calcistico, la gente forse se la dimentica: ho giocato per vent’anni, divertendo i tifosi». Vero, non scordiamocelo mai.