mah, io forse so' prevenuto e altrettanto forse sono un lettore pigro
però, dopo aver letto con gran giubilo "una cosa..." ed aver finito con somma difficoltà "la scopa del sistema" (ma capitemi, mi stavo separando: lo leggevo a lume di candela o in autobus strapieno, stante la nuova condizione di nuovo-povero-post-avvocati...del libro ricordo bene quella che diventerà la frase mantra di tarallo "molte ragazze belle hanno dei piedi davvero brutti"), ho tentato di leggere "IJ" fermandomi alle prime 40 pagine
non capendo nulla eh, cioè no non capendo cose c'era scritto ma dove volesse andare a parare
e, soprattutto, a che fine
così, quando ho iniziato a leggere lodi sperticate (ovviamente, postume: prima della morte, almeno in italia, DFW non se lo cacava nessuno) da parte di persone che magari ti dicevano "mah, dostojevskij...che noia", oppure "si perec è bravo, ma il libro è troppo contorto", o anche "beh, bulgakov è troppo onirico", quando poi i tre temi (prolissità, contorsione dialettica e oniricità, ovviamente IMHO) sono tre cifre stilistiche di DFW, beh, allora ho iniziato a capire che certi lettori amano leggere perché si deve, soprattutto dopo una morte tragica
e che, però, molti autori scrivono proprio così, perché la ricerca della difficoltà nella lettura è, in molti casi, un target da raggiungere, nè più nè meno come una vacua inutile leggerezza da libri da parrucchiera (tipo moccia) che raggiungono a loro volta un altro target
secondo me
Io credo che tu in buona misura abbia ragione ma confondi due piani ontologici che viaggiano in parallelo e che non necessariamente si sovrappongono sempre.
Io sono un lettore di cose "contorte": mi piace, non ci posso fare niente.
Sarà colpa dei Salesiani, dei miei studi classici, della stessa mia vita che tanto lineare non è. Non saprei dire, veramente.
Non che non ami letture più leggere ma traggo maggior piacere da Musil o Dostoevsky o Joyce.
Non so se adoro di più il senso di soddisfazione di esserne venuto a capo oppure il vuoto che provo alla fine (perchè la lettura ha lasciato un segno e mi serve tempo per metabolizzare o perché
mi piace credere che la lettura lo abbia lasciato quel segno, chissà..)
Fatto sta che rimango sempre piacevolmente sorpreso quando un libro molto lineare mi lascia le stesse sensazioni (soddisfazione e "vuoto post-lettura").
Ad esempio Cesare Pavese mi fa quest'effetto, anomalo per quanto mi riguarda (almeno quanto lo è Pavese nella letteratura del novecento).
A parte le "anomale eccezioni", io sono dunque un target ed ammetto di esserlo, senza problemi.
Altro è invece "il leggere perché si deve, soprattutto dopo una morte tragica".
Si hanno a disposizione pochi libri l'anno. O si ha il culo di imbattersi in un testo nel momento giusto (e il culo si aiutava fino a poco tempo fa solo andando in libreria, anzi nelle librerie "giuste") oppure si rischia (anzi, è probabile) di "bucare" qualche autore.
E quindi - duole dirlo ma è così - siccome la letteratura fa più spesso notizia in coincidenza della morte dell'autore, scoperta l'ignoranza si corre ai ripari, maledicendosi e maledicendo il tempo tiranno.
Poi però, una volta letto l'autore e colmata quindi la lacuna (che per molti spesso è vissuta come un insopportabile macigno), non è che ti debba piacere per forza.
Forse l'essersi tolto "il peso dell'ignoranza" motiva e rende comprensibili - ma non giustificabili - alcuni giudizi troppo affrettati e tranchant.