..un po' lungo ma interessante
(è troppo lungo e lo divido in due parti)
PARTE 1
http://espresso.repubblica.it/attualita/2016/02/01/news/michela-murgia-non-chiamatela-maternita-surrogata-1.248420Michela Murgia: Non chiamatela maternità surrogataFirmatari famosi contro la maternità surrogata, già vietata per legge in Italia. Con toni che, secondo Chiara Lalli, ricordano "il patriarcato che vogliamo combattere", mentre per Maddalena Gasparini la maternità surrogata è "una contrattualità portata alle estreme conseguenze". Un dibattito che si riapre in un momento delicato per la legge sulle unioni civili
Da settimane mi ronza in testa il fastidio legato all'appello contro la "maternità surrogata" firmato da molte donne (e tra loro molte che stimo e con cui ho condiviso percorsi), ma che io mi sono rifiutata di firmare, come tante altre. Non ho scritto ancora il perché e la ragione è che il perché è complesso e richiede molta e collettiva elaborazione, che sospetto siano alcuni degli aggettivi con cui non si può definire il percorso che ha condotto alla stesura dell'appello di Snoq Libere. Vorrei iniziare l'anno condividendo in post differenti alcune riflessioni che ho fatto in questi mesi sul tema, cercando il più possibile di isolare le direttrici del discorso per affrontarle con la minima confusione possibile, e intendo la mia, dato che questo è un tema su cui non ho certezze.
Il primo motivo per cui l'appello di Snoq Libere mi ha lasciato perplessa è l'uso dell'espressione "maternità surrogata", collegata all'insistenza su una sorta di naturalità cogente insita nel legame di gestazione, definito con una certa enfasi "percorso di vita" e "avventura umana straordinaria". Prima di cominciare a discutere di maternità surrogata penso che andrebbe definito meglio cosa dobbiamo intendere per maternità nel 2016. Se con essa ci riferiamo alla dimensione fisica e/o spirituale che unisce al desiderio procreativo la disposizione ad assumersi la responsabilità genitoriale su una vita altrui, è escluso che essa si possa surrogare, giacché è un atto di volontà e consapevolezza personale non alienabile.
È fin troppo ovvio dire che non basti restare incinte per parlare di maternità, ma forse non è altrettanto ovvio ricordare che questa affermazione è una conquista civile piuttosto recente. Per secoli siamo state infatti madri per forza, impossibilitate a sottrarci al percorso del sangue e alle funzioni collegate, se non a prezzo di una fortissima condanna sociale. Sono state le lotte del femminismo del secolo scorso a costringere la società a ripensare la maternità fino a definire madre solo quella che accetta di esserlo, trasformando in scelta individuale ciò che era un destino collettivo.
Non è quindi tollerabile oggi in un discorso serio sentir definire “maternità” il processo fisico della semplice gravidanza, che in sé - e lo sappiamo tutte - può escludere sia il desiderio procreativo sia la disposizione ad assumersi la responsabilità e la cura del nascituro. Di conseguenza è improprio discutere anche di maternità surrogata. Si può discutere invece di gravidanza surrogata, purché resti chiaro che si tratta di qualcosa di profondamente diverso. Operare questa distinzione è tutt'altro che ozioso, perché la legge italiana - entro i limiti che conosciamo - permette già ora a una donna che resta incinta di scindere i due processi e agire per rifiutare il ruolo indesiderato di madre, sia attraverso l'interruzione di gravidanza, sia attraverso la rinuncia permanente a curarsi del neonato.
Chi si oppone alla gravidanza surrogata chiamandola "maternità" e adducendo come motivazione l'unicità insostituibile del legame che si stabilirebbe tra gestante e feto sta ponendo le condizioni perché gravidanza e maternità tornino a essere inscindibili e quella sovrapposizione torni a essere usata contro le donne SEMPRE, ogni volta che per i motivi più svariati provassero a scegliere di non essere madri.
Reintroducendo nel dibattito la mistica deterministica del “sangue del sangue” non si sta quindi mettendo in discussione solo l'ipotesi della surrogazione gestazionale, ma anche alcuni comportamenti che sono già normati come diritti nel nostro sistema giuridico, cioè l'aborto e la possibilità di rinunciare alla potestà genitoriale, per tacere dell'adozione, legame di pura volontà che in questo modo - non originandosi "dall'avventura umana straordinaria" della gravidanza - tornerebbe nell'alveo delle maternità di serie B. Sbalordisce dunque che a utilizzare la categoria del legame naturale siano donne che si richiamano al percorso femminista.
In molti paesi, incluse Italia e Francia in cui la pratica è vietata, i movimenti femministi dibattono sul tema. E ora il Partito Popolare Europeo ha fatto inserire un articolo contro la maternità per altri nella relazione annuale
Il prezzo di dare la vita. Quanto costa la libertà di sceglierci madri.La questione economica è apparentemente il cuore del dibattito sulla gravidanza surrogata. È socialmente accettabile che donne povere possano vendere la propria capacità riproduttiva - quella, non il proprio figlio - a ricche coppie sterili? Si può iniziare spontaneamente una relazione biologica come la gestazione senza avere intenzione di assumersi la maternità che ne deriverebbe? Lo si può fare anche dietro compenso? Più ci penso, più mi rispondo che una legge che metta delle regole all'eventuale risposta positiva a questa domanda è molto più urgente di una legge che impedisca di porsela, visto che qualcuno se la porrà comunque e andrà a cercare la risposta in India.
Per ragionare intorno a questa ipotesi provo a partire da alcune considerazioni sulle leggi che regolano l'aborto e la rinuncia alla potestà. Entrambe le scelte sono di fatto interruzioni di una relazione biologica praticate unilateralmente dalla donna coinvolta. Le ragioni possono essere le più diverse, ma quelle economiche sono tra le principali. Quando ci si trova davanti alla possibilità di mettere al mondo una nuova vita i soldi sono un argomento molto rilevante, se non addirittura dirimente. Si abortisce (e in misura minore si abbandona il figlio nato) perché talvolta non si vogliono figli, ma soprattutto perché, anche a fronte di un desiderio di maternità, ragioni di opportunità economica suggeriscono di rimandarla: si è precarie senza prospettiva di stabilità, non si guadagna a sufficienza, si teme di essere licenziate o demansionate, si hanno già altri figli che assorbono le risorse familiari o non si ha la casa, il lavoro o lo status sociale di garanzia per sé e per chi nascerebbe. Non è un caso se l'articolo 4 della legge 194/78 indica esplicitamente quelle economiche tra le ragioni valide per consentire l'interruzione di gravidanza: sono tutt’altro che rare.
Il punto quindi è: se in questo paese esiste una legge che consente l'interruzione di gravidanza perché non si hanno abbastanza sicurezze economiche, secondo quale logica non dovrebbe esistere una legge che per ottenere quelle sicurezze ne consenta invece l'inizio e il prosieguo? Quale sarebbe la ragione per cui si può impedire la nascita di un essere umano perché non si hanno abbastanza soldi, ma non si può ipotizzare una legge che permetta di realizzarla per ottenerli?
Che siano i cattolici a opporsi non stupisce: la dottrina morale della Chiesa non attribuisce alla volontà della donna un valore superiore alla vita del generato, a meno che non siano in gioco entrambe, e quindi è perfettamente coerente che il mondo ecclesiale si opponga tanto all'aborto che alla gestazione per altri: sono entrambe espressioni di arbitrio assoluto sulla vita nascente.
Assai meno coerente mi pare che a opporsi alla surrogazione siano persone che si richiamano ai valori che hanno permesso l'esistenza di una legge sulla libertà di scelta della donna in merito all'aborto, che mi sembra appartenere allo stesso ordine di senso.
La gestazione per altri (da qui in poi GPA) dal punto di vista formale non è altro che una gravidanza indesiderata - dato che per sé stesse non la si sarebbe intrapresa - portata a termine invece che interrotta. Lo stesso principio che difende il diritto di interrompere una gravidanza dovrebbe, a rigor di logica, essere applicato al diritto di darle inizio e portarla a compimento a prescindere dal fatto che ci sia di mezzo un accordo economico, perché se le ragioni economiche sono legittime per decidere di abortire, non possono essere illegittime per decidere di partorire.
Che poi lo Stato debba fare di tutto per rimuovere le ragioni economiche dell'una e dell'altra scelta è una questione di giustizia che riguarda noi tutti, lo Stato e le sue politiche sociali, ma non la donna e le sue scelte. Nessuna dovrebbe essere costretta ad abortire o a partorire per altri perché ha bisogno di soldi, ma finché non saremmo socialmente in grado di rimuovere gli ostacoli economici che impediscono alle donne di scegliere di diventare o meno madri secondo il solo loro desiderio, esse devono poterlo fare dentro a un quadro di regole che le tuteli e tuteli chi da loro nasce. Chiedere che si faccia una legge per impedire la GPA non solo non ferma lo sfruttamento, ma lo rende privo di limiti.
Pagate non vuole dire vendute. Nessun prezzo trasforma il dono in merce.La questione economica è molto problematica, ma non mi sembra eludibile. Una gravidanza comporta tempo, alterazione fisica e rischi oggettivi: immaginare che qualcuno possa affrontare tutto questo per altruismo significa riferirsi a una ridottissima minoranza di donne, probabilmente in occidente; il rimanente - cioè tutte le donne che lo stanno già facendo - lo farà per soldi e per nessun altro scopo. Mi appare del resto impensabile chiedere a qualcuna di affrontare un simile impegno senza prevedere un'assicurazione, un'alta remunerazione del tempo della gestazione, un adeguato percorso medico, un supporto all'eventuale famiglia che si priva della sua presenza, forza e salute e un accompagnamento successivo che duri fino al completo recupero psicofisico della donna. Dove c'è una legge, queste cose ci sono tutte o in gran parte. Dove una legge manca, le donne lo fanno lo stesso e queste garanzie non le hanno.
Il problema è la povertà di partenza? Certo che è la povertà di partenza: è ovvio che 99 su 100 non lo farebbero mai se non fossero povere. Ma questa affermazione può essere applicata identicamente anche alla signora rumena che ha lasciato i figli a sua madre per venire qui a fare la badante a nostra nonna. Quale donna accetterebbe di rinunciare all'infanzia dei suoi bambini per andare in un paese straniero a offrire la sua forza fisica, la sua presenza e la sua cura a una famiglia estranea se non venisse pagata abbastanza da migliorare la sua svantaggiatissima posizione di partenza? In quel caso non è sempre la sua povertà che stiamo comprando, o vogliamo raccontarci che emigrare dall'Est europeo per fare le badanti è un lavoro come un altro? Le ore che paghiamo a queste donne non sono solo il tempo che passano ad occuparsi della vecchiaia di nostra madre: sono sopratutto il tempo migliore della loro vita, quello che non passano con i loro figli, con il marito, nel proprio paese, a fare altro.
È uno sfruttamento evidente, perché nessuno stipendio consentirà mai loro di ricomprarsi quello a cui stanno rinunciando, nessuna tredicesima ripagherà i loro figli della privazione di aver visto la madre quattro volte l'anno per tutta l'infanzia. È ipocrita non voler vedere che la nostra emancipazione, la libertà di andare a lavorare o di vivere la vita della nostra famiglia anziché votarsi all'assistenza di una persona anziana è conquistata a prezzo della non emancipazione di altre donne, alle quali il compito di cura che la società ha sempre preteso dalle donne italiane è stato semplicemente trasferito.
Del resto, quante sono le donne che ogni giorno anche qui rinunciano o rimandano la possibilità di diventare madri perché perderebbero il lavoro o sarebbero costrette a lasciarlo? Non è un problema di sfruttamento il fatto che ci siano aziende che per assumerle pretendano la loro sterilità, datori di lavoro che gliela chiedano sin dal colloquio di assunzione e uno Stato che tagli i servizi e proponga forme di contratto che tutelano sempre meno le donne che scelgono di essere madri nonostante tutto?
Mi pare evidente che il problema etico della remunerazione della gravidanza surrogata sia identico per natura a quello di qualunque prestazione estrema di vita che si fa in cambio di denaro: è un problema di classe, di rapporti di potere economico e sociale, di scambio impari. Può essere evitato? Se sì, il sistema non lo abbiamo ancora trovato. Se ne possono limitare i danni? Certo che sì, ma rifiutare di riconoscere che siamo già tutti e tutte dentro un mercato non è forse il modo più costruttivo per cominciare a farlo.
Dove si ferma il denaro. Senza regole vince il mercatoLa legge risolve il problema della mercificazione? No. Accettare per legge che una GPA sia remunerata e che i genitori intenzionali siano obbligati a coprire anche tutte le spese correlate di assicurazione, assistenza medica, psicologica e collaterali offrirebbe molte garanzie alla gestante, ma avrebbe la controindicazione di legittimare la gravidanza surrogata per quello che clandestinamente già è: una opportunità per soli ricchi. Chi non ha tutti quei soldi - poiché i figli li vuole anche chi ha meno potenzialità di spesa - si sposterà verso la clandestinità, cioè verso quelle donne più povere o meno adatte fisicamente che sono disposte a fare comunque la gestazione, ma a costi minori, in maniera meno tutelata, con maggior rischio e senza garanzie.
Questo è il mio problema etico maggiore: se questa opportunità resterà costosa, e anzi per legge costerà di più proprio per offrire delle garanzie a chi è fragile, i diritti della gestante che solo il denaro in gioco garantisce verranno percepiti dai committenti come un costo da abbassare, spingendo gli aspiranti genitori meno abbienti a spostarsi dove le legislazioni sono più blande o semplicemente le donne sono più bisognose. Mentre nel primo caso chi può spendere tanto (o ha più coscienza) avrà la prima scelta e offrirà alla gestante garanzie superiori, chi può spendere meno incontrerà l'offerta meno qualificata di donne disposte a tutto per cifre minori, esattamente come chi ora aggira i canali dell'adozione ufficiale per diventare genitore prima saltando la fila e le pretese burocratiche. Il problema dell'etica, comunque la si giri, mi pare sempre legato alla disparità economica.
C'è poi un altro fattore che mi impedisce di avere certezze: il fatto che tra i genitori intenzionali e la persona che accetta di portare avanti la gravidanza per loro conto ci sia un accordo economico pone questioni che non riguardano tanto il fatto di dare un prezzo alla funzione riproduttiva del corpo della donna (il che attiene alla sua libertà di scelta e ai limiti entro i quali la può esercitare) quanto l'equivoco che può generarsi riguardo al bambino che nasce. Qui i miei dubbi si fanno fortissimi, perché i casi di cronaca ci dicono chiaramente che una parte delle coppie che si rivolge a terzi per generare è convinta di stare “ordinando” un bambino, e non semplicemente pagando la disponibilità alla gestazione. Quello che ne consegue è la pretesa di avere un “prodotto conforme” alle aspettative, con tutto l'orrore che deriva dall'ipotesi di un rifiuto nel momento in cui invece non lo fosse. È possibile rifiutare un bambino malato? È possibile chiedere alla donna gestante di abortire se la malattia è diagnosticata durante la gravidanza? Sono questioni che turbano, ma la cui risposta, in assenza di una legge che ponga dei limiti, non potrà che essere sempre sì.
Se vogliamo dei "no" ci vogliono norme che li impongano, perché senza una legge che metta dei limiti, i genitori intenzionali possono sparire senza lasciare traccia e chi si è visto si è visto. Possono rifiutare il bambino a nascita avvenuta senza alcuna conseguenza legale, semplicemente perché hanno cambiato idea. Possono sparire e rifiutarsi di pagare se la gestante non abortisce, o se perde il bambino, o se muore lei stessa di parto. In assenza di leggi a tutela delle parti deboli, la forza del denaro può fare tutto.
Prima delle legge sul divorzio gli uomini sparivano, abbandonavano le donne e i figli e nessuno poteva obbligarli al mantenimento. Prima della legge sull'aborto le donne abortivano lo stesso, ma morivano nel tentativo clandestino e nessuno ne aveva responsabilità. Le leggi che consentono sono le sole che possono mettere dei limiti all'azione che stanno legittimando, per il fatto stesso di riconoscerla. L'assenza di leggi permette invece qualunque eccesso, perché nessuno degli abusi perpetrati sulla parte debole è definibile come tale: semplicemente, senza legge, non esiste.
Libere di scegliere fino all'ultimo. Perché la gestante non è un contenitore.Una donna che accettasse di portare avanti una gestazione per altri avrebbe il diritto di cambiare idea durante la gravidanza e decidere alla nascita di tenersi il bambino come proprio, anche se i gameti non erano i suoi? Mi sono trovata a parlare di questa questione con molte donne e la risposta a questa domanda è stata la stessa per tutte: sì.
La motivazione è evidente: proprio perché un essere umano non è una merce, in nessun caso il denaro versato alla donna gestante può essere considerato un corrispettivo per il bambino, ma sempre e soltanto una remunerazione della sua gestazione. Si paga il tempo, si paga il rischio, si pagano le assistenze, ma non si compra il nascituro, la cui cessione avviene per pura volontà da parte di colei che ne è a tutti gli effetti la madre fisica. Non importa di chi sono gli ovociti e lo sperma: anche la gestante ci mette del suo, non è un mero corpo attraversato. Non importa nemmeno quanto è costato il processo: il risultato sarà comunque un dono, che può restare in mano alla sola persona che ha il diritto di considerarlo proprio fino a quando non rinunci spontaneamente a farlo. Questo è uno dei pochi aspetti su cui non ho alcun dubbio etico, se non altro per una questione di sproporzione del rischio. È infatti innegabile che in un accordo di questo tipo la stragrande maggioranza dei pericoli ricada su chi porta fisicamente avanti la gravidanza.
Tra questi pericoli, non ultimo, c'è anche la morte. La donna gestante ci mette il sangue, il tempo, il sonno, il sentimento, la variazione ormonale, le modifiche alimentari e d'abitudine, la mutazione del corpo e l'alterazione delle sue dinamiche relazionali. Ha la percezione fisica della vita che nasce e vive da protagonista il processo delicatissimo che connette un essere umano compiuto a uno in formazione. Questo processo investe la sua interezza di persona, non solo il suo utero, e che nell'arco dei nove mesi la sua volontà possa mutare deve essere considerata una possibilità sempre lecita, in effetti il solo rischio a carico dei genitori intenzionali, oltre a quello di un'ipotesi di morte del bambino durante la gravidanza o la nascita. Naturalmente questo apre a potenziali tentativi di ricatto da parte della gestante per alzare il prezzo della rinuncia, ma credo sia un rischio assolutamente sostenibile a fronte di quello che si assume chi porta avanti la gravidanza.
(SEGUE)